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Nel cuore del Giappone
Riprendiamo il racconto da dove ero rimasto, cercando di dettagliarlo maggiormente.
Mi trovo in un ristorante italiano adesso, e ci starò per una settimana, lavorando in cambio di vitto ed alloggio; il tempo libero non manca e ne approfitterò per regalarvi qualche parola in più sulla mia esperienza nel cuore del Giappone.
Da Morioka a Minamisouma la strada è stata lunga, tremendamente lunga, in Giappone, e specialmente nell’Honshu, fare tanti km è un’impresa, e non se ne riescono a fare mai più di 400 in una giornata, a meno di infrangere tutte le norme del codice della strada, senza contare poi che alle 6 è già buio.
Secondo il navigatore erano 350km, ma io ho allungato di proposito per osservare meglio la costa del Tohoku colpita dallo Tsunami (a riguardo ho scritto uno speciale che troverete in seguito a questo articolo), e così ne ho contati 390 al termine della giornata.
La sera, all’arrivo, Ohara san mi fa capire che la prima notte la passerò al tempio buddista di Hoshimi san: mi accompagna in macchina, meglio così, è già buio e il GPS forse non ha il waypoint nella corretta posizione.
Come arrivo trovo anche Akiko, che tramite Ogawa san aveva saputo del mio arrivo a Minamisouma e su facebook mi aveva promesso di farsi viva, e così ecco che mi saluta regalandomi un seti di “osembe”, snack giapponesi; io non ho niente da darle, e così dovrò impegnarmi a farle avere qualcosa prima di ripartire.
Gli snack in Giappone hanno taglia…minuscola!!!
2 biscottini da pochi grammi l’uno confezionati perfettamente in un involucro invitante: qua in Giappone tutto è confezionato, confezioni dentro le confezioni, dentro a pacchetti più grossi…ma poi arrivi a scartare tutti i pacchettini che in fondo non ci rimane niente…ahhhhh!!!
Andiamo all’Onsen, terme giapponesi (di nuovo!); sono in città, non credo che la sorgente sia termale, anche perché l’acqua odora un po’ di cloro.
A cena ci rechiamo presso un ristorante italiano, “Mario” come mio babbo, e ci divoriamo un set di tre primi, di cui uno “alla giapponese”, ovvero spaghetti con daikon (rafano giapponese) alga nori e tonno…beh, avrà infranto non so quante leggi della cucina italiana, ma non era poi così male!
E’ ora di dormire, la sveglia è puntata per le 6 di mattina, ora della preghiera buddista.
Al mattino ecco che mi si presenta il tempio Ganokuji in tutto il suo splendore: 1200 anni di storia, almeno all’esterno, mentre all’interno è stato ristrutturato recentemente da degli abili falegnami che hanno sede qua vicino.
L’architettura della nuova porta di ingresso ricalca quella del vecchio tempio, e rimango esterrefatto dagli incastri, tutti a secco, del legname…è qualcosa di incredibile!
La sera precedente ho avuto modo di studiare anche qualche elaborato tecnico del progetto di questa porta, impressionante.
Il tempio è situato al limitare del centro città; silenzioso, circondato dalla natura, sembra di vivere in un mondo a parte.
Prima di pranzo Hoshimi san mi porta a fare un giro nella zona colpita dallo tsunami, mostrandomi ciò che è stato delle circostanze; terribile.
L’approfondimento, nell’articolo seguente.
A pranzo, dopo qualche km a bordo della sua Prius (qua in Giappone quasi ogni famiglia ne ha una, le auto ibride sono in voga) ci fermiamo presso un ristorantino che dall’esterno sembra una casetta bianco candido.
Anche qui si devono lasciare le scarpe all’ingresso, e ci si siede al tavolo stando praticamente in terra…al centro del tavolo c’è poi una “fossa” per riporre le gambe in posizione “occidentale”.
Hoshimi san ordina un “setto” (set) comprendente
- Tempura di ebi (gambero), patata dolce, melanzana e zucca
- Soba e salsa per soba
- Sashimi (pesce crudo sfilettato) con riso e tamago (frittata)
- Tsukemono (una sorta di marinatura) di daikon
Fantastico, una scorpacciata da paura! E tutto ottimo, di qualità superba!
Una nota esilarante: i soba, ovvero quella sorta di spaghetti in secondo piano, si mangiano intingendoli nella salsa soba (nascosta dal piattino dove sosta il porro tagliato a dischetti) e poi, prendendoli con le bacchette, bisogna portarli alla bocca e…risucchiare più forte che si può!!
Nel ristorante è un’eco continua di rumori strani, che da noi sarebbero volgarissimi e maleducati, qui è invece la norma, anzi, più forte risucchi e più gradisci.
Io ci provo, ma mi sbrodolo tutto mentre tento di imitarli, con i soba che penzolano da destra a sinistra appesi alle mie labbra…mentre cerco di non ridere per come sono impacciato e per come gli altri attorno emettano suoni così potenti mentre mangiano!!
Proseguiamo il giro sulla Toyota, e visitiamo la falegnameria dove si produce la carpenteria del tempio (che tra l’altro fornisce anche il tempio Kougenji di Hokkaido).
E’ uno spettacolo, nel laboratorio si entra senza scarpe (si, anche qui!!!) ed i falegnami sono di una meticolosità palpabile a chilometri di distanza, con una precisione nelle mani da far invidia ad un calibro.
E gli strumenti sembrano intonsi, mai usati, in ordine perfetto sul carrello.
Torniamo al tempio, il tempo di vedere qualche foto insieme ad Hoshimi san che arriva Ohara san a prelevarmi per scortarmi a casa sua, dove starò 2 notti. Hoshimi san mi è piaciuto, una persona silenziosa, dal gran contegno, dai modi gentili.
Durante il mio soggiorno al tempio avevo udito qualcosa che mi riportava la mente al tempo dei Samurai in Giappone, a proposito di armature, rievocazioni, storie…il bello è che proprio una di queste armature (originali, non cose da turisti!) l’avrei indossata io!!!
Ohara san ha uno zio che si occupa della vestizione dei cavalieri (pardon, Samurai) durante la rievocazione storica “Minamisoma Somanomaoai” che si tiene a luglio, dove decine di Samurai sfilano lungo la strada principale per poi darsi appuntamento all’ippodromo per ottenere il titolo annuale.
Il pomeriggio tardi ci avviamo a casa di questo zio, e già mi attendono con tutti gli strumenti necessari a farmi sentire sulle spalle tutto il peso di un vero Samurai! (l’armatura è in effetti molto pesante!)
Il corpetto è in lamina di ferro, mi va un po’ stretto, i giapponesi hanno corpi più esili degli europei.
Dopo aver indossato tutte le protezioni necessarie (parastinchi, maglia di ferro sulle braccia, corpetto, gonnellino e casco), e dopo aver decorato il casco con quello che pare un demone giapponese, sono pronto per la sessione di foto…wow, fantastico!
Da piccolo ero appassionato del cartone animato “I 5 Samurai” ed adesso che assomiglio ad uno di loro mi sento gasato!
Il samurai (侍) era un militare del Giappone feudale, appartenente ad una delle due caste aristocratiche giapponesi, quella dei guerrieri.
Il nome deriva sicuramente da un verbo, saburau, che significa servire o tenersi a lato e letteralmente significa colui che serve.
Un termine più appropriato sarebbe bushi (武士, letteralmente: bu significa “marziale”; shi è l’unione tra il tratto basso orizzontale che indica il numero 1 e la croce il 10: l’unione di questi due segni rappresenta la conoscenza, quindi colui che discerne tutto, l’illuminato) che risale al periodo Edo.
Attualmente il termine viene usato per indicare proprio la nobiltà guerriera.
I samurai che non servivano un daimyō perché era morto o perché ne avevano perso il favore, o la fiducia, erano chiamati rōnin, letteralmente “uomo onda”, che intende libero da vincoli, ma assume sempre un significato dispregiativo.
I samurai costituivano una casta colta, che oltre alle arti marziali, direttamente connesse con la loro professione, praticava arti zen come il cha no yu o lo shodō.
Durante l’era Tokugawa persero gradualmente la loro funzione militare divenendo dei semplici Rōnin che spesso si abbandonavano a saccheggi e barbarie.
Verso la fine del periodo Edo, i samurai erano essenzialmente designati come i burocrati al servizio dello shōgun o di un daimyō, e la loro spada veniva usata soltanto per scopi cerimoniali, per sottolineare la loro appartenenza di casta.
Con il Rinnovamento Meiji (tardo XIX secolo) la classe dei samurai fu abolita in favore di un esercito nazionale in stile occidentale.
Ciò nonostante il bushidō, rigido codice d’onore dei samurai, è sopravvissuto ed è ancora, nella società giapponese odierna, un nucleo di principi morali e di comportamento simile al ruolo svolto dai principi etici religiosi nelle società occidentali attuali.
Affascinante, la frammistione di principi rigidi e tradizioni forti come quelle del bushido e del samurai, ed il mondo giapponese moderno, così diverso e “fantascientifico”.
Torniamo a casa, una gran bella casa su due piani, recente, pulita e di buon gusto.
La Madre di Yoshihiro ha preparato un’ottima cena giapponese a base di…troppe cose!!!
Sulla tavola campeggia di tutto, dal miso al riso, dal sashimi allo tsukemono, dall’oden al toufu…è un’esplosione di sapori!
Cerchiamo di scoprire la password della wifi, sembra una missione impossibile e così decidiamo di rimandare al giorno seguente; approfitto per dormire qualche ora in più appisolandomi presto.
La mattina riesco a vedere, seppur nascosta dalle nuvole, la mia prima alba giapponese: qui la luce comincia a comparire da dietro l’orizzonte già prima delle 5 del mattino!
Appena alzato, la signora Ohara mi fa trovare in tavola, già pronta, la cena.
No, un momento…la colazione…la colazione??
Sembra così simile ad una qualsiasi cena/pranzo!!!
In Giappone per colazione si mangiano le stesse cose del pranzo o della cena; ahhh, quanto mi manca la colazione con biscotti, cereali, yogurt…e la mia dose giornaliera di zuccheri!!
Comunque, tutto ottimo!
In mattinata facciamo un altro giro verso la costa, approfondendo il lato “marino”, dopo aver visionato alcuni video amatoriali a proposito dell’onda anomala generata il giorno del terremoto.
Prima di partire per la ricognizione mi chiedono se per pranzo mi andasse del sushi…gli faccio intendere che…”ma che domande sono, certo che si!!!”
E così per pranzo mi trovo di fronte a questa meraviglia…
Un delizioso assortimento di sushi di cappesante, gamberi, granchio, ikura (uova di salmone), tonno, salmone etc etc…una mangiata da ricordare!
Pomeriggio libero: il padre di Yoshihiro ci saluta (scusandosi!) per andare ad una cena con i vecchi compagni di classe, ed io mi rilasso sul divano mentre la signora Ohara non fa che continuare a portarmi succhi di frutta, frutta a fette, osembe, gelato…e va a finire che è ora di cena, oggi non ho mai interrotto l’attività masticatoria!!
Ci ritroviamo al ristorante di okonomiyaki con Akiko, suo marito, Ogawa san e Ohara san che mi ha accompagnato.
E’ ganzissimo: c’è una piastra centrale che occupa gran parte del tavolo, e dopo ordinazioni varie cominciano ad arrivare ingredienti freschi pronti per essere mescolati e posati sulla piastra.
Questo ad esempio è un okonomiyaki, con pastella, cavolo e carne se non ricordo male, ed una volta pronto si guarnisce con salsa per okonomiyaki (molto simile alla salsa per tonkatsu), nori in polvere e katsuoboshi in polvere (praticamente pesce secco).
Wow, che mangiata!
Tutti hanno bevuto un po’ troppo, così il marito di Akiko torna a casa in bici e Ohara san chiama un tassista per farsi guidare la macchina fino a casa…accidenti, gente seria i giapponesi, complimenti!
La mattina seguente Ogawa san arriva per portarmi al suo covo, mi sento più nomade adesso di quando ero in Mongolia, eh eh!
Saluto la famiglia Ohara, gentilissima e super premurosa, li ricorderò sempre con affetto e spero di poter tornare a salutarli.
Con Ogawa san facciamo un giro in auto con direzione museo di storia di Minamisouma, dove vengono esaltate le emergenze naturali e storiche della città, in special modo la tradizione samurai e la rievocazione di luglio.
Ma la parte che più mi attrae è il parchetto tutto attorno.
E’ ora di pranzo.
Non si fa che parlare di cibo, vero?
Beh, qua è tutto “nuovo” per me, anche se già conoscevo gran parte della cucina giapponese più famosa.
Oggi tocca al tonkatsu…mmm, è delizioso, fuori la croccantezza del panko e dentro la delicatezza della cotoletta di maiale.
Contorno di riso, miso, tsukemono di daikon e cavolo.
Tutto per 730Yen, praticamente neanche 6€, e sono pieno!
Per quanto riguarda il cibo, il Giappone è molto meno costoso dell’Italia, devo ammetterlo.
Fine della giornata in auto, girovagando tra colline e mare, sempre alla ricerca del dettaglio che sbroglia la matassa di dubbi attorno al disastro dello Tsunami e del collasso della centrale Fukushima Dai-ichi.
Ma per parlare di questo ci sarà tempo nello speciale seguente.
Stasera tocca a me: mi è stato affidato il compito di preparare qualcosa di italiano, ok!
Qualcuno butta là l’ipotesi del risotto e così spolvero una ricetta che spesso viene proposta a casa mia dalla mamma – risotto alla zucca!
La preparazione non è semplice perché mancano alcuni ingredienti, quali parmigiano e riso per risotto (in Giappone ne esiste solo un tipo, sembra, a grano corto, e non è il top per il risotto); comunque no problem, con qualche adattamento riesco a tirar fuori un buon risotto all’occhio ed al palato!
Ogni volta che mangio italiano sento che i sapori sono cambiati dall’ultima volta, mesi fa in Italia, ed i piatti sono molto più gustosi, un delirio per le papille gustative!
Mr Ogawa e Mr Ohara apprezzano ed io vado fiero di questa italianità.
Purtroppo ogni storia ha un termine e la mia qui a Minamisouma è giunta a tal punto.
Le amicizie accumulate qui sono state tante, e tutti mi hanno accolto in casa loro come li conoscessi da molto, come vecchi amici, sono sbalordito, perché mi aspettavo il contrario dai giapponesi, riservati, timidi e un po’ timorosi degli estranei.
Akiko e Ohara san mi svelano che il mio carattere, il mio sorriso e la mia positività piacciono ai giapponesi, perciò nessuno ha mai difficoltà a darmi una mano, e mi confidano che questa sarà una caratteristica fondamentale quando sarò a Tokyo in cerca di impiego: sono contento per queste parole, mi mettono molto di buonumore.
Grazie amici!
I km che mi separano da Mrs Shimura sono pochi, sui 160 circa, ne approfitto per fare una breve deviazione al Goshiki Numa Lake, uno scorcio in mezzo alla verdura del bosco dove si estende un laghetto carinissimo; peccato per la giornata non proprio bellissima!
Sono curioso di vedere come sarà questo ristorante.
Quale ristorante??
Già, ancora non l’ho spiegato: starò una settimana da Shimura san, che gestisce un ristorante tutto da sola, e per giunta il ristorante è italiano!
In cambio di vitto ed alloggio lavorerò per lei come contadino, inserviente, cameriere, cuoco, lavapiatti…insomma mi darò da fare per rendere a Shimura san questi giorni un po’ meno pesanti e meno solitari (lavora qui da sola, e riesce a fare tutto questo a 76 anni, ha un’energia che a volte neanche io…!), per godermi la pace del lago Hibara e per apprendere qualcosa di più dalla frammistione di tradizione italiana ed atmosfera giapponese.
I primi passi nell'Honshu
Honshu!
Dopo 3h e 40 (e non 3h39, né 3h41) la nave arriva ad Aomori…precisa come i trasporti pubblici italiani.
Beh, no..un po’ più precisa.
La strada non è scorrevole come nell’Hokkaido e me ne accorgo subito: la densità dell’abitato è maggiore, le città hanno semafori a non finire.
E le auto rispettano tutti i benedetti limiti/divieti stradali!
Si, proprio così, nessuno sfora i 40kmh in città ed i 50/60kmh in extraurbano.
In questo modo diventa difficile per me rispettare le tempistiche fornite ai miei amici giapponesi, così quando c’è un po’ di strada libera cerco di forzare, spesso è divertente guidare tra le curve delle strade di campagna, l’asfalto è sempre pulito e molto sicuro in termini di grip.
Ogni tanto poi si trovano posticini come questo, Onsen tradizionali e laghetti di acque sorgive calde e sulfuree.
Dopo circa 3h e mezzo di guida arrivo a Morioka, città del wanko soba e del reimen.
Suzuki san sente il rumore della moto e si affaccia, un po’ preoccupata perché in ritardo di circa mezz’ora.
Il suo benvenuto non si fa attendere, in casa mi aspetta una cameretta in stile occidentale, un bagno caldo, ed appena fuori dall’”ofuro” ecco che la cena è pronta: tonkatsu! Cotoletta di maiale con cavolo, pomodoro, salsa tonkatsu (la famosa salsa bulldog) e riso. Cosa potrei chiedere di più!?
Spero di farmi una bella dormita adesso, ma la signora Suzuki programma la sveglia alle 6.30 per andare al mercato…uff, farò questo sforzo!
La mattina scopro con piacere che la levataccia è valsa la pena, perché al mercato si acquista frutta e verdura ad un prezzo molto basso rispetto al supermercato, forse 3-4 volte meno. La cattiva notizia è appunto che apre dalle 4 alle 7 di mattina!!!
Torniamo a casa e poco prima di pranzo sua sorella passa a prendermi con suo marito e Naruyoshi, un ospite speciale, viaggiatore anche lui, 23 anni da Osaka, in giro in bicicletta attraverso il Giappone…ai giapponesi piace viaggiare!
Andiamo verso l’Iwate yama (montagna), anche chiamato Iwate-san, come fosse una persona: i giapponesi chiamano le montagne con titoli di rispetto, ad esaltarne la sacralità.
A dire il vero non è proprio una montagna, ma un vulcano, che 400 anni fa eruttò una gran quantità di magma, che ancora oggi è visibile in una lingua di 1kmx3km.
Qualche albero tenta la vita in mezzo al magma.
Visitiamo il centro dell’artigianato di Morioka, e per pranzo, sorpresa, andiamo al ristorante di reimen dove noi stessi saremo i “cuochi”, preparando il reimen (ramen freddo, di provenienza coreana) con le nostre mani.
Questo dovrebbe essere l’aspetto finale: i giapponesi sono maestri nel realizzare versioni in resina del prodotto finale!
Pronti via si parte!
La “maestra”, molto puntigliosa..
Il taglio e la bollitura.
Lavaggio in acqua fredda.
Niente male alla fine, buono, anche se il cocomero…mah!!
E’ la volta del dessert, e ci dirigiamo verso un negozietto che produce all’istante dei nambu sembe, praticamente dei biscotti con all’interno noccioline.
Non resisto, ne voglio fare uno anche io!!
Infine, il cimitero di Morioka, dove è seppellito attualmente il primo premier giapponese, eletto nel 1918.
La sera, sorpresa!
Tempura!!
La tipica frittura giapponese, preparata con pastella apposita oppure con farina e uova, impasto non ben mescolato (è una regola) e freddo.
Con tanto di patata dolce, zucca, zucchine, funghi, peperoncini e “ebi” (gamberi).
Itadakimasu! Buon appetito!
Non contenti, ci siamo fatti anche dei gyoza, ravioli di carne e verdure, con diverse salse, tra cui soia, aceto etc..
Ohayoo gozaimasu! Buongiorno!
Naruyoshi è di Osaka e fiero della cucina della sua città ci mostra come si cucinano gli okonomiyaki, una specie di frittata con cavolo e carne, oppure pesce.
Ottimi, li adoro! (anche se per colazione una bella fetta di pane e marmellata ancora mi manca!!!)
Siamo agli sgoccioli, il tempo con Masako è passato velocemente, si è presa cura di me come fossi suo nipote, la mia “zia” giapponese!
La sua casa è super accogliente e mi mancherà!
Ma prima c’è sempre tempo per scherzare e provare qualche strumento giapponese antico di cui non ricordo il nome. In una stanzetta con tatami dove solitamente Masako si reca per pregare per i suoi cari, offrendo anche del cibo come prevede il rituale buddista.
Colazione…toufu, maiale in salsa, riso, pesce in salsa d’aceto, zuppa di pesce, verdure sottaceto. Voglio il dolceeeeeeeeeee!!!
Grazie Suzuki san, grazie di tutto, è stato un piacere, e spero di rivederti presto!
Con dispiacere dopo qualche km mi ricordo di essermi dimenticato il bento con inarizushi e mochi che Masako mi aveva preparato..diamine, le uniche cose dolci mi sono perso!!!
Devo tornare a Morioka, un giorno, per riprendermi quel bento!
Un centinaio di km mi separa dalla costa.
Si trovano sempre più case tradizionali, o che ricalcano lo stile tradizionale.
Mi aspetto di vedere lande desolate e disfatte dallo tsunami, ed invece trovo un gran lavorìo di mezzi e persone, impianti di movimento terra giganteschi, barriere altissime a futura protezione da tsunami successivi.
Lungo la strada, un saliscendi continuo, si trovano cartelli che segnalano l’inizio e la fine della zona di allagamento dello tsunami.
Nelle zone più alte si trovano spesso templi buddisti o shintoisti, delle vere chicche.
Mentre in pianura, ogni volta che riscendo, qualche edificio dilaniato è lì che mi ricorda ciò che successe 3 anni fa.
Sono edifici che saltano fuori dal nulla, in mezzo al verde selvaggio che si riprende ciò che era suo un tempo.
Lavori ovunque, un dispiegamento di bulldozer, escavatori, camion e uomini mai visto in vita mia.
E tanta, immensa determinazione.
I giapponesi sono un grande popolo.
Strade chiuse, troppo vicine alla costa, sono state rivoltate e risucchiate dalla dirompente forza dell’onda anomala.
E di nuovo case intonse nelle alture.
Colline spogliate dalla flora, per ricavare terra per terrapieni, materiale prezioso adesso.
Ancora strade interrotte, ponti crollati, grovigli di metallo che testimoniano la violenza estrema del mare.
Già, il mare, che adesso appare così calmo.
Faccio altri km, e noto le prime case temporanee, ovviamente in luoghi riparati e molto al di sopra del livello del mare.
Penso ai terremoti che hanno colpito anche l’Italia.
Ma il paragone è impossibile.
E’ sera oramai, sono vicino a Minamisoma, dopo aver allungato la strada di 50km per osservare meglio il disagio vissuto tre anni fa.
Il cielo è ancora capace di regalare qualcosa, dopo una giornata grigia, quasi ad evocare tristezza.
Sono ospite del tempio Ganokuji, da Hoshimi san, parente del bonzu di Hokkaido.
Il tempio è molto più antico, mi dice che ha 1200 anni, è impressionante però come sia ben mantenuto all’esterno, mentre all’interno è stato visibilmente rinnovato.
Mi aspetta di nuovo tatami e futon per la notte, bell’ambiente!
La tecnica costruttiva ricalca quella antica, la porta di accesso è recente ma ugualmente incredibilmente complessa ed interessante.
Matane, a presto Hokkaido!
Inizia una nuova giornata, come al solito sveglia presto, impossibile dormire oltre le 7.30 perché il sole è già alto da quasi 2 ore e oltre alla luce si fa sentire pure il caldo.
Saeki san oggi ha deciso che è giornata di lavoro, e ben volentieri affianco Kan san nella tinteggiatura di una stanza della guesthouse.
Loro la chiamano tinteggiatura ma in realtà si tratta della stesura di un fine strato di velo bianco, che in giapponese ha un nome particolare che ora non mi torna a mente, ed una volta era realizzato con conchiglie macinate finemente.
E così il mio primo “lavoro” in Giappone l’ho trovato!
Pausa pranzo con riso e manzo in salsa. E l’immancabile the freddo!
La sera mi dedico alla seconda attività lavorativa giapponese: cuoco.
Satoe, la figlia di Saeki, ha un ristorante proprio accanto alla fattoria, e mette a disposizione la sua cucina per preparare…pizza…ma vah, ormai un classico!
Yuichi, il figlio di Satoe, è sempre pronto a mostrare trucchi da futuro mago.
A cena siamo tutti, manca soltanto Hartmut che oggi ci ha salutati per proseguire il suo viaggio da solo; sono un po’ dispiaciuto ma allo stesso tempo preferisco così, le nostre esigenze sono troppo diverse, tra noi corrono più del doppio di anni!
A cena si aggiunge anche Riko san, ragazza che vive a pochi passi da qui, con ottima conoscenza dell’inglese, imparato al college in USA; ci rivedremo a Tokyo, dove è stata assunta per un lavoro a partire da ottobre.
La mattina seguente sarà l’ultima disponibile per godersi lo Shiretoko, una prominenza a nord-est di Hokkaido, parco naturale dall’incredibile bellezza, oltretutto con strade perfette e divertenti.
Il limite di velocità è di 60kmh (si, sessanta) anche nelle extraurbane, a volte sembra veramente stupido, e per godere meglio di curva e controcurva accelero un po’; ogni virata è disegnata perfettamente su un asfalto dotato di tanto grip, impossibile che una curva metta in difficoltà, sembra che gli ingegneri abbiano studiato le traiettorie di una motocicletta prima di progettare il tracciato stradale.
La giornata è soleggiata, fortunatamente, ma una volta arrivato sullo Shiretoko pass la nebbia (anzi, le nuvole) fa il suo corso rendendo il paesaggio misterioso.
Proseguo, per adesso non ho visto cose eccezionali, ma penso che prima o poi incontrerò qualche “oasi” di rara bellezza; intanto mi godo la strada, ancora molto divertente.
A fianco della striscia nera di asfalto corrono sempre foreste rigogliose con un sottobosco foltissimo, e talvolta capita di fare incontri particolari!
Cerbiatti! Non è raro incontrarne, anzi, secondo i giapponesi ce ne sono troppi e questo causa la rovina di alcune specie vegetali; sono presenti anche diversi “kuma” (orsi) qui, ma fortunatamente non ho avuto il piacere di incontrarne neanche uno.
Ad un certo punto decido di prendere una deviazione dopo aver letto un’interessante indicazione che portava versotali “Shiretoko Goko Lakes”.
All’arrivo c’è da pagare un forfait di 100Yen per il parcheggio, l’ingresso al parco poi è gratuito se si decide di percorrere soltanto la passerella in legno rialzata con vista sui laghi.
E’ incredibile: la passerella è perfetta, gli assemblaggi del legname sono fatti ad arte, la qualità è elevatissima, direi che non stona al di sopra dello spettacolo naturale che si para di fronte ai miei occhi.
Al termine della passerella si arriva al primo dei 5 laghi; il percorso sopraelevato termina qui, se si vuole proseguire bisogna pagare, ma non ho molto tempo (e soldi) e così mi “accontento” di questo.
Molte studentesse di scuole d’arte si danno appuntamento allo Shiretoko, è un luogo ideale per disegnare e dipingere.
Mentre torno al parcheggio scorgo un ragazzo che curiosamente sta girando intorno alla mia moto; facciamo due chiacchiere col suo inglese un po’ stentato e capisco che è da oltre 80 giorni che da Osaka sta girando il Giappone col suo Honda 90cc (o forse 50?); rimango stupito, io ce ne ho messi altrettanti per arrivare qui dall’Italia!!
Proseguo il tour, qui vicino ci sono delle cascate particolari, ci si arriva dopo aver percorso 5km di sterrato.
Praticamente è un fiume che scorre su pietra, ma non ciottoli, una vera e propria lastra di pietra, dall’acqua tiepida, forse di provenienza termale, che si può risalire per un breve tratto.
Torno indietro, ed i paesaggi mi danno conferma che è valsa la pena passare di qui!
Nelle vicinanze si trova anche un altro lago, molto famoso perché è il secondo al mondo per chiarezza dell’acqua, ed indovinate quale è il primo? Il Baikal, ovviamente!
Insomma, dove sono stato io non era molto pulito, per via della sabbia!
Purtroppo non riesco ad avvicinarmi, il punto panoramico si trova molti metri al di sopra del livello del lago, ma mi dicono che sia possibile osservare oggetti fino a 30m sotto il pelo dell’acqua.
Come tutto qua in Giappone, il parcheggio stesso della località è perfetto e sembra ritagliato in uno spazio da cartolina.
La sera verso le 16.30 sono di nuovo alla fattoria, e pronti-via si riparte per l’onsen, stavolta si tratta di una sorgente termale gratuita ed aperta a tutti.
L’ultima cena, con Kan san, Satoe san e Yuichi kun. Comincio già ora a sentire una certa nostalgia, qui mi hanno trattato davvero come uno di loro.
I giapponesi in fondo non sono un popolo freddo, anzi, mi hanno dato l’impressione di tutto il contrario, fino ad adesso.
E’ il momento delle dediche: Saeki san ci teneva molto e così ho disegnato pure io sulla sua “wall”.
Il momento più difficile, infine, i saluti.
Ci protraiamo per una buona mezzoretta scambiandoci auguri e promesse di rivederci, alcuni in Tokyo, altri in Italia, altri ancora mi aspettano nuovamente qui ad Hokkaido!
Oggi è la volta di Sapporo.
Sono circa 390km, e conto di percorrerli in 6-7 ore.
Sono dubbioso sull’andamento del meteo, non sembra promettere bene, ed infatti dopo poco dalla partenza comincia a piovere, e l’acqua non mi abbandona fino all’arrivo.
All’arrivo mi trovo in un quartiere residenziale a Kaminopporo, alla periferia di Sapporo, fatto di case singole, una rarità nelle grandi città, mi ritengo fortunato.
Michiko san mi apre le porte della casa e mi mette subito a mio agio, sistemandomi in una fantastica stanzetta in stile tradizionale giapponese: tatami e futon, fantastico!!!
La casa è ordinata e pulita, e pure grande per gli standard giapponesi.
Andiamo, ovviamente, all’onsen, e prima del ritorno a casa passeremo per cena al kaiten sushi…cosa, ho capito bene?
Si, kaiten sushi! Quel ristorante dove il sushi passa sul nastro e tu prelevi il piattino man mano che vedi qualcosa che ti piace…già godo prima di arrivarci!
L’atmosfera all’interno non è usuale per il Giappone, almeno per me, lo chef urla per le ordinazioni, in continuazione, e questo crea molto folklore.
Mi diverto come un matto, ed i piattini divorati, ricchi di pesce di ottima qualità, da sciogliersi in bocca, mi rendono sazio e felice…grazie Michiko e Masanori!
Alla mattina mi sveglio col rumore della preparazione della colazione, tipica giapponese: insalata, uova, pane, latte, formaggio…manca solo il riso ed un po’ di pesce.
Michiko oggi riparte per Tokyo, dove ancora lavora parzialmente, e così la saluto alla stazione JR, da dove mi dirigerò verso il centro; rimarrò poi con suo marito, che però non parla inglese!
In treno nessuno sembra interessato ad alcun contatto: ognuno guarda dritto in fronte a sé evitando accuratamente gli sguardi altrui, e come provo a cercare qualche contatto visivo rimango stupito di come non riesca ad avere alcun riscontro…il silenzio regna.
Arrivo a Sapporo, la giornata è splendida!
La città ha apparenza da “grande” città, ma in realtà è molto tranquilla, almeno se comparata con Tokyo.
Si respira un’aria rilassata.
La torre dell’orologio è l’unico edificio “antico” di Sapporo, l’architettura è quella classica giapponese, presumo di fine ‘800.
Ad un certo punto mi imbatto nelle prime operaie dei giardini: una cosa così in Italia forse non la vedo da 20 anni…e poi capisci perché qua è sempre tutto ordinato e perfetto!
Intravedo la “Terebi tower”, ovvero la torre della televisione.
Ed è qui che mi stupisco maggiormente: le operaie nel giardino ci possono anche stare, ma sotto alla torre ci sono gli operai del pavimento…che con gli strumenti più avanzati lustrano il lastrico sottostante la torre, incredibile!!!
Ancora esterrefatto salgo i primi gradini della torre, poi mi fermo dinanzi al cartello che propone di arrivare sulla cima per 700Yen…decisamente troppo, oggi vedrò comunque la città dall’alto, dall’Okurayama, gratuitamente, perciò rinuncio e mi godo la vista dal piano intermedio.
Nijo market: il mercato del pesce.
Sapporo non è una città di mare, perciò il mercato del pesce è ridotto a poche bancarelle che non coprono neanche un isolato.
Il pescato è comunque ben esposto, e vi si trovano cose che da noi non troveremmo mai.
E mentre esco dal mercato, è qui che trovo uno scorcio che definirei veramente di città giapponese.
E’ ora di pranzo.
Mi hanno consigliato di fermarmi in un locale dove preparano ramen o riso al curry, però i prezzi non sono bassissimi (non per me che sono in viaggio, ma volendo con non oltre 5€ si mangia) e così decido di farmi il mio personale riso al curry comprando l’occorrente al 7-11. 2€.
Il bello è che se compri qualcosa da scaldare, alla cassa hanno il microonde, e poi ti forniscono pure hashi, tovagliolo, e cannuccia per bibite…troppo avanti!
Non mi faccio mancare neanche un gigantesco pezzo di torta…deliziosa.
Alle 13 ho appuntamento con Masanori vicino alla torre della TV, per intraprendere un tour panoramico della città: lo intravedo nel traffico dei viali e salgo a bordo in un baleno; ci dirigiamo all’Okurayama, dove ancora sono in funzione, forse solo a livello di museo, gli impianti sciistici risalenti alle ultime olimpiadi invernali svoltesi a Sapporo.
Dalla vetta dell’impianto si ha un’ottima vista su tutta la città.
Ridiscendendo la montagna si trova un tempio shintoista, qua se ne trovano diversi, e sono molto caratteristici: entriamo, e nel momento si sta svolgendo una sorta di cerimonia.
Una danzatrice muove alcuni passi al ritmo di musica giapponese.
All’esterno sembra di vivere in un’atmosfera da set cinematografico.
Per finire il tour, andiamo alla famosa fabbrica-museo della birra Sapporo, la più importante dell’intero Giappone.
In realtà il museo non offre granché, almeno per me che non sono madrelingua giapponese, in quanto le descrizioni sono al 90% in lingua madre, in ogni caso il materiale esposto non è interessantissimo, ma l’edificio che lo ospita è davvero degno di pregio.
All’esterno noto anche un vecchio trattore…FIAT!!!
Alcune spiegazioni sono fornite da simpatici e infantili rappresentazioni plastiche. Mi fanno morire dal ridere!
Torniamo a casa, dopo esserci capiti (e fraintesi) a gesti e col traduttore automatico di google, e per cena Masanori prepara una zuppa mista a base di pesce e carne, davvero strana, ma niente male!
C’è anche la nipote di Michiko, che parla un inglese sufficiente per capirsi, e finalmente riesco a farmi intendere di nuovo!
La mattina seguente è soleggiata ed il buon tempo sembra volermi accompagnare.
Ci salutiamo, con l’hachimaki in testa!
Due bambini della casa adiacente si avvicinano curiosamente e facciamo una foto insieme, e ringraziano da buoni giapponesi!
Sulla strada, movimentata ma senza particolari emergenze architettoniche o naturali, incontro un tempio shintoista: ce ne sono diversi, segnalati dalla porta di ingresso a due montanti, spesso molto piccoli.
Ho fame. So dove fermarmi: 7-11.
Prelevo dagli scaffali la versione scura della “mia” torta, dovrebbe essere al cioccolato ma il sapore mi suggerisce caramello; la accompagno con un succo all’arancia: ci voleva, un po’ di zuccheri dopo una colazione salata!
Come presente per coloro che mi ospiteranno stasera acquisto una scatola di buste di the freddo, non riuscendo a smettere di ridere osservando la faccia del giapponese che la reclamizza!
Arrivo al tempio…wow, un vero tempio buddista giapponese!
E’ diverso da quelli incontrati in Mongolia e Russia, qui la parola chiave è lo Zen giapponese.
All’ingresso sono “obbligato” a vestire giapponese ed a posare per qualche foto ricordo. Ganzo!
Itadaki san mi porta immediatamente all’Onsen…sembra che qui sia obbligatorio anche andare all’Onsen, tante sono le volte che ci sono stato!!!
Mi spaventa un po’ stare qui 2 giorni, penso che le razioni di cibo saranno molto risicate e le ore di sonno molto poche.
Vengo subito smentito per quanto riguarda la prima parte di quanto detto: stasera barbecue d’agnello (sembra essere molto popolare nei barbecue la carne d’agnello, per cui esiste una specifica salsa) in porzioni sovrumane.
L’atmosfera è piacevole nonostante nessuno parli inglese, eccetto una ragazza che ha un livello elementare.
L’alcool provvede a far ridere tutti i giapponesi che mi circondano: a loro piace bere ma non riescono a reggerlo più di tanto, perciò dopo due bicchierini di sakè sono già alticci.
A nanna…le dolenti note sono che domattina la sveglia è alle 6…in compenso mi trovo in una stanza tradizionale, anche qui tatami e futon, accnato alla stanza da cerimonia del the.
Sono contentissimo, queste esperienze sono difficili da fare pure per un giapponese, ed io le sto vivendo giornalmente e pure a gratis.
Grazie LAILAC!
Alla sveglia ci rechiamo nel tempio dove Takuzen recita alcuni versi suonando una specie di tamburo ed uno strumento somigliante ad una campana rovesciata.
Ed io seduto nella classica posizione giapponese con le gambe piegate sotto al sedere soffro come una bestia!
Colazione, salata ovviamente, non riesco ad abituarmici.
Oltretutto oggi non mi sembra di sentirmi benissimo, ho lo stomaco in subbuglio e la testa che pulsa.
Itadaki san mi porta a fare un lungo giro attorno al lago Onhuma, mostrandomi la realtà locale, fatta di serre, campi coltivati, punti panoramici, strutture ricettive.
Sullo sfondo del lago è possibile vedere il monte Kumanatage, che in realtà sarebbe un vulcano; 1600 anni fa è esploso in una grande eruzione, e la sua altezza è passata da 1800m a 1100 soltanto, disperdendo nella valle, e nel lago stesso, frammenti più o meno grandi di pietra.
Dopo pranzo è la volta dello Yukata, la versione “povera” del kimono.
E’ sempre Itadaki san che mi aiuta nella vestizione…sono eccitato, e mi fa davvero strano vestire abiti tradizionali giapponesi!
Subito dopo tocca al Kimono, fatto di più strati e di tessuti più pregiati, tra cui la seta.
Tutti ridono quando mi vedono, e subito dopo mi fanno i complimenti, e subito dopo ridono ancora…sti giapponesi mi fanno morire!!!
Dietro all’estremo carattere dello zen ho trovato delle persone che pur non parlando inglese mi hanno fatto trovare un ambiente caldo ed accogliente, dove ho potuto recuperare forze ed apprezzare la realtà buddista giapponese.
Forse rivedrò Takuzen a Tokyo ad Ottobre.
Gli altri chissà, il mio proposito di rimanere in Giappone mi fa uscire dalla bocca un “Matane!”…”A presto!”…
Riprendo la mia strada per Hakodate, il porto da dove mi imbarcherò per l’Honshu. Solo 30km, alla biglietteria nessuno parla inglese ma il mio frasario mi aiuta e riesco a fare il biglietto in pichi minuti. 40€ circa, purtroppo la compagnia che parte adesso è la più cara, con l’altra avrei risparmiato sui 10-15€. 3h e 40′ e sarò ad Aomori.
Approfitto sulla nave per redigere il diario di viaggio su Word, per poi caricarlo sul blog quando potrò…già quando potrò?
La wifi ancora sembra irraggiungibile nel paese della tecnologia…no problem, con un po’ di zen pazienterò ancora…
Nihon!!!
E’ la mia ultima notte a Sakhalin.
E l’ultima in Russia.
Domani sarò in Giappone, ancora non riesco a crederci e non ci penso neppure.
E’ il compleanno di Victoria, la mia host (è già il secondo compleanno durante il mio viaggio, incredibile!), e decido che per l’ultima notte a Yuzhno-Sakhalinsk posso fare un’eccezione e festeggiare con i suoi amici fino a tardi.
Ci troviamo a Zima, un’area attrezzata, per un barbecue e dolce di compleanno.
Nessuno in realtà è originario di Sakhalin, eccetto un ragazzo, qui i giovani arrivano allettati dalle proposte di lavoro ben pagate, addirittura 4 volte di più che nella Russia europea, a volte.
Il party si prolunga di molto, andiamo in centro e ci scateniamo in un club fino alle 4 di notte, l’ambiente è piacevole ed io sono gasato mentre penso alla nave il giorno dopo.
Le ore di sonno purtroppo si riducono a 2, alle 6 è già ora di svegliarsi e così chiamo Anton, il mio salvatore qui a Yuzhni, per andare a riprendere la moto in un parcheggio custodito…i bikers russi sono i migliori mai incontrati, fanno di tutto per farti stare al top, te e la tua moto!!!
Arrivo in ritardo all’imbarco, come al solito, ma altrimenti come potrei farmi riconoscere come italiani?
Il mio piano di riempire il serbatoio con l’ultima 80 ottani svanisce così, e pure quello di fare la spesa per vedere di finire i rubli rimastimi; niente da fare, lascio terra con ancora circa 1500 rubli.
Entro nella nave della Heartland Ferry, ormai la Russia è già dietro le spalle, e…la prima cosa che dobbiamo fare è lavare le moto!!
Un’altra volta?! “L’ho già lavata ieri…” tento di spiegare “Meglio lavarla ancora” mi risponde un ufficiale di bordo…”OK!”
Non contenti, hanno provveduto loro stessi a terminare il lavaggio…giapponesi, il popolo più pulito del mondo!Prima di salire c’era una terza moto con noi ad aspettare alla dogana, un’Africa Twin targata Giappone, wow, ottima occasione per fare amicizia: anche lui si chiama Watanabe, e sta tornando ad Osaka dopo un paio di settimane spese in Russia.
Ci affidiamo a lui per un sacco di consigli, e come da norma comportamentale giapponese, lui ci aiuta in ogni passo e fino alla fine.
Nella nave c’è il tatami e non si può camminarvi, ovviamente, con gli stivali. Tutto è perfetto, pulito, in ordine, la nave non ha un filo di ruggine. Mi sento già in Giappone.
Un ultimo sguardo a Sakhalin. Senza rimpianti,orgoglioso del mio “cammino” russo.
Si mangia! Cosa poteva esserci se non un bel “bento” (set di cibo servito in vassoio) con tanto di pane soffice, formaggio cremoso, hamburger, wurstel di pesce, marmellata e burro con dessert di budino e “appuru juusu”, ovvero apple juice, succo di mela.Le ore passano in fretta, solo 5 ore e mezzo di traversata.
Arriveremo alle 16 ora russa, 14 ora giapponese. Si, si torna indietro di 2 ore, molto strano!
Mi preparo psicologicamente all’impatto: sono tre anni che sogno questa terra, ed adesso che sono a pochi chilometri dal poggiare il primo passo, dal percorrere i primi metri sulle due ruote che videro la luce proprio in Giappone 24 anni fa, è impossibile realizzare che davvero ce l’ho fatta.
77 giorni di viaggio, da Montevarchi al Giappone, veramente l’ho fatto? Sto solo, ancora sognando?
Rare sono le occasioni in cui piango. Non mi piace esteriorizzare la mia emotività.
Cerco di nascondermi dagli sguardi.
Sento qualche goccia che mi segna il viso, bagnandolo.
Si, ce l’ho fatta, sono in Giappone.
E’ impossibile fermarsi un attimo per realizzare che la grande scommessa fatta con me stesso 3 anni fa è stata appena vinta: gli ufficiali della dogana mi richiamano subito al mondo reale, si comincia con i controlli, e ci spostiamo in una saletta che sa di ospedale.
Pochi minuti e tutto è pronto.
Importazione della moto: 22.000Yen (circa 170€) nella quale è compresa l’assicurazione di base per il motociclo (6875Yen) valida per 6 mesi.
Il trasporto della moto, dovuto alle autorità giapponesi, è di “soli” 9.000Yen (65€) piuttosto dei 25.000 prospettatici in terra russa.
Nihon!
La polizia doganale è simpatica ed accomodante, tre persone indaffaratissime con i controlli ma che non si negano una foto con noi al termine delle operazioni. Augurandoci buon viaggio! Ioi tabi o!
Watanabe-san ci accompagna quindi per qualche km introducendoci alla nazione giapponese.
Prima facciamo un salto alla SoftBank, compagnia telefonica giapponese, ma acquistare una simcard è impossibile, se non acquistandola in pacchetto con un telefonino.
Il costo totale per telefono, simcard, 2 mesi di traffico con comprese email, per non oltre 55 minuti a 9Yen al minuto, è di circa 85€. Non molto conveniente, ci penso.
Facciamo qualche km e poi ci separiamo. Watanabe-san ci saluta scusandosi per non averci potuto aiutare al 100%, e ringraziandoci…wow, solo in Giappone può succedere!I primi km qui trascorrono in un’atmosfera di euforia generale, ogni cosa per me è “nuova” e così diversa che non posso fare a meno di ruotare l’Arai da destra a sinistra in continuazione, osservando le cose come un bambino che vede il mondo per la prima volta.
Inoltre qua si guida a sinistra, mi avevano avvertito che non sarebbe stato semplice, ed invece ci metto un attimo ad abituarmi, notando che addirittura in questo modo è più semplice mantenere alta la concentrazione, data la novità.
Ci fermiamo al Seicomart, minimarket dove facciamo la nostra prima spesa giapponese; Hartmut ha deciso di seguirmi ancora per un po’ verso l’Hokkaido orientale.
Il minimarket è “ganzissimo” e dentro tutto è in ordine, confezionato perfettamente, con porzioni minuscole ma presentate in modo assolutamente perfetto. Sono al settimo cielo, impazzisco per queste novità!
All’ingresso di nuovi clienti la cantilena del benvenuto e del ringraziamento all’ingresso da parte delle commesse è come una canzone registrata, un disco rotto.
I miei primi 394Yen se ne vanno con l’acquisto di un piccolo presente per Saeki-san, che mi ospiterà all’indomani nella sua fattoria a Nakashibetsu.
Acquisto una confezione di cioccolatini, all’apparenza deliziosi (i giapponesi sono maestri nell’arte della presentazione) ed una confezione di the verde (ocha) in foglie. Spero di non fare una brutta figura.
Si fa tardi, e senza che ce ne possiamo rendere conto il sole è già dietro l’orizzonte: le due ore di luce che abbiamo guadagnato la mattina le abbiamo perse la sera e così alle 18 il sole è già giù. Diamine, dobbiamo sbrigarci a trovare un riparo: Watanabe-san ci aveva consigliato un campeggio gratuito vicino Esashi, ma mancano ancora 20km all’arrivo.
Siamo fortunati però, perché scorgo dei camper in postazione in un’area di parcheggio, decido di dare un’occhiata: wow, fantastico, l’erba è tagliata e soffice che pare un campo da golf, nessuna cartaccia in terra, panorama rilassante, atmosfera sicura, come ovunque qua in Giappone…lascio sempre le chiavi nel quadro, e nessuno osa avvicinarsi alla moto, fantastico.
Sistemata la tenda tiriamo fuori le nostre vettovaglie e ci apprestiamo a mangiare, anzi Hartmut ha già cominciato a mangiare, ha sempre una gran fretta!
Io mi intrattengo qualche minuto con dei giapponesi che curiosamente mi si erano avvicinati, e dopo qualche parola ci invitano al “ristorante”…il tavolo è già apparecchiato, ed in men che non si dica ci servono il primo piatto caldo, fatto di verdure con formaggio fuso e wurstel: non ci credo!
I giapponesi solitamente non sono espansivi, ma questi signori di Tokyo ci mettono a disposizione tanti manicaretti, con anche una bella spaghettata alla bolognese, salmone essiccato pescato da loro, osembe, e sakè, tanto sakè che li fa ridere come matti insieme a noi!
Sono le 21.
Buio pesto, fatico a crederlo, ma già da un’oretta è impossibile vedere qualcosa qua intorno.
Decido di andare a letto, la giornata è stata lunga ed è come se fossero già le 23.
Ore 5 del mattino. Il sole è già sorto.
Decido di resistere, ma non riesco a stare dentro la tenda oltre le 7.30, è già un caldo insopportabile, come fossero quasi le 10, e questo mi ricorda di nuovo le due ore di fuso “artificiale”.
Colazione con pane e sgushonka, il latte condensato russo, terribilmente delizioso per pensare che è la mia ultima confezione e che probabilmente in Giappone non lo ritroverò (almeno non a meno di 1€ a confezione!).
I nostri amici giapponesi sono già al lavoro, a seccare il pesce pescato in speciali reti.
Oggi non è una buona giornata, capiscono che non sarà redditizia in termini di pesca e così decidono di riposare.
Oltre al pesce, i nostri amici hanno anche un altro prezioso raccolto dal mare: l’alga Kombu, che stanno essiccando. Si usa principalmente per zuppe.
Nihon!
Ogni volta rimango sbalordito dal livello di infrastrutturazione percepito in Giappone: tutto va per linee aeree, e così la strada ha un groviglio di cavi sopra di sé.
Ci fermiamo per fare benzina: molti distributori sono imbellettati da lucine e lucette, cartelli di dimensioni gigantesche, coloratissimi e con caratteri abnormi per attirare l’attenzione…guardate questo distributore ad esempio!
L’unica nota negativa è che la benzina è piuttosto cara, dopo la Russia, a circa 1.20€ di media; le mie informazioni la davano a 1.10€ ma probabilmente è aumentata o più probabilmente qui ad Hokkaido è più cara.
Hokkaido è l’isola più bella da percorrere in moto, così mi avevano detto, ed infatti oggi vediamo un sacco di motociclisti per strada, almeno la metà dei quali chopperisti, ma sui passi si trovano, come sempre, le sportive, tra cui una Panigale R!
Da qui si ha un’ottima visuale sul lago, dopo qualche decina di scalini si può fermarsi e godere della vista per qualche minuto.
Mancano oramai 60km all’arrivo, un’ora circa e saremo da Saeki-san.
Ogni tunnel non completamente interrato ha un intelligente sistema di illuminazione, formato da lastre semitrasparenti, probabilmente in plexiglas, sul dorso dello stesso.
Le indicazioni di Erii, vicepresidentessa Lailac, sono state utili ed il dettaglio ci ha permesso di arrivare senza problemi a destinazione.
Ci accolgono Kan-san e Kiko-san. Kan parla inglese abbastanza bene, Kiko parla un ottimo british english.
Poco dopo si fa vivo Saeki-san, arrivando sportivamente su un Honda 90cc che una volta era in dotazione alle poste giapponesi.
Ci sistemiamo e la sera ci sarà un barbecue giapponese…wow!
La fattoria è specializzata nella produzione di latte, come molte qui ad Hokkaido. Ogni volta che mi avvicino le mucche mi guardano sospettosamente.
Che abbiano capito anche loro che sono gaijin??
Gaijin è il termine che i giapponesi per definire uno straniero, abbreviazione di gaikokujin; fino a qualche anno fa la versione breve gaijin era usata a titolo dispregiativo, adesso la differenza non è sostanziale.
Siamo sistemati in una ex-stalla adibita adesso a laboratorio/guesthouse.
Neanche qui è ammesso l’uso di scarpe.
All’ora di cena si aggiungono Yukari-san, Yuichi-kun e la figlia di Saeki-san, Satoe.
Il barbecue è a base di carne di agnello, soba (una specie di spaghetti giapponesi), toufu con kimchi, e verdure.
Una goduria per il palato.
La tecnologia non manca mai in Giappone, neanche in una fattoria, e così mi esalto scoprendo strani macchinari: questo serve per scaldare l’acqua a 98°C, ottimo per preparare ocha (the).
Vogliamo parlare poi del WC giapponese?
E come non parlarne! Fantastico: appena ti siedi schizzi per aria…qualcosa non va..la ciambella è calda!
Forte! Così d’inverno non devi aver paura di metterti a sedere su una lastra di ghiaccio!
E poi c’è un pannello a parete con ben 16 bottoni…sono 2 giorni che lo uso, ed ancora non ho capito a cosa servano, neppure la metà di questi bottoni!
Per colazione Saeki-san ci offre del latte fresco: è già pastorizzato, ma molto saporito!!
Subito dopo colazione ci mostra varie stanze adibite a museo, di cui va particolarmente fiero. Alcune opere sono le sue.
Dopo una breve sessione di ginnastica mattutina col gruppo di giapponesi anglofoni, veniamo portati a circa 10km dalla fattoria, da cui comincia uno dei famosi “trails” esplorati da Saeki-san, che adesso fanno parte, con ricca documentazione, di un percorso che si snoda attraverso molti checkpoint, per oltre 70km di camminata.
Salutiamo i nostri amici e partiamo, in due ore e mezzo dovremmo farcela, il paesaggio è magnifico e non ci sarà da annoiarsi.
Il sottobosco è stranissimo, mai vista una cosa del genere, sembra quasi una foresta tropicale.
Diversi torrenti segnano il percorso.
Queste campane, ci hanno detto, servono per avvertire gli orsi della nostra presenza, e sembra che nei dintorni ce ne siano diversi.
In ogni modo, la passeggiata termina senza alcun inconveniente, e dopo aver assaporato con gli occhi bei paesaggi di un Giappone che non ti aspetti, siamo di nuovo alla fattoria di Saeki-san.
Salutiamo Kiko e Yukari, che tornano a Tokyo in serata.
Il tramonto è segnato da un po’ di umidità.
Cena frugale con una delle buste di liofilizzati che ancora ho con me dall’Italia: è la volta della zuppa di farro e fagioli, ottima!
Mentre ceniamo Saeki-san si fa vivo e ci fa capire che andremo in un Onsen alle 20.15: wow!
Sono solo 3 giorni che sono in Giappone e la mia esperienza è già così ricca, sono emozionato!
Il posto è molto elegante e curato, come tutto qua in Giappone, mi aspetto un salasso per l’ingresso, ed invece sono solo 600Yen, praticamente 4€, una sciocchezza per delle terme in un luogo così caratteristico.
Saeki è comunque gentilissimo ed offre l’ingresso.
All’interno troviamo uno spogliatoio, da cui si deve uscire nudi e dotati solo del microasciugamano che forniscono all’ingresso, si entra poi in una sala chiusa totalmente rivestita in legno con diverse vasche a più temperature: si va da quella ghiacciata, da utilizzare all’uscita della sauna asciutta, a quella a 42°C, passando per l’intermedia a circa 35°C.
Su un lato troviamo docce e saponi vari per lavarsi al termine.
L’ambiente esterno ha un’atmosfera magica, avete presente quelle cose che si vedono solo nei film o nei cartoni animati giapponesi?
Il mio inizio in Giappone è stato esaltante, sono soli 3 giorni e già amo questo paese!
Do svidaniya, Rossiya!
Do svidaniya, Rossiya! (pron. Dasvida’nia Rassi’a)
Ovvero, arrivederci, Russia!
Si, arrivederci, perche’ sono sicuro сhe un giorno tornero’ a far visita a questo paese, сhe inizialmente mi aveva colpito negativamente per alcuni fatti spiacevoli, poi mi e’ entrato nel cuore attraverso la bonta’ delle persone.
Ma ripartiamo da Khabarovsk.
Mi intrattengo un giorno in piu’, perche’ alcuni russi (ubriachi!) mi hanno chiesto di rimanere con loro per fare una partita al torneo di beach tennis сhe si sarebbe tenuto in quei giorni.
Sergey e Natasha, i miei host, partecipano guadagnando il 10imo posto, io scambio qualche palla per una buona ora ricordando i bei tempi di quando ero tennista.
Il torneo si gioca lungo l’Amur, e questo e’ solo uno dei suoi bracci minori. Fa impressione.
Giunge il tempo di lasciare Khabarovsk, grande citta’ ma piuttosto tranquilla, come le altre del Far East d’altronde.
Ma non prima di aver cucinato una bella pizza…eh si, abbiamo trovato la mozzarella, e ora e’ obbligatorio prepararne una deliziosa!
Lascio la mia calda stanzetta all’interno dell’appartamento di Sergey e Natasha, con dei bei ricordi assieme a loro.
La strada per Vanino, nei primi 200km e’ molto buona, asfalto seminuovo e scorrevole.
Non si vede mai l’Amur, purtroppo, cosi’ a Lidoga decido di deviare per qualche km per andarlo a vedere per l’ultima volta. Purtroppo questo braccio del fiume e’ molto piccolo e non sortisce l’effetto che avrei sperato..sara’ per un’altra volta, ci rivedremo ne sono certo!
Proseguo, la strada e’ ancora ottima, si percepisce сhe ho abbandonato la principale, le auto scarseggiano.
I panorami non sono male, la guida e’ piacevole у trovo anche i famosi ponti in assi di legno, ma…
…purtroppo ci sono alcuni km i sterrato, davvero pessimi: mi bastano 80km di sterrato in queste condizioni, con pietre grandi ed appuntite, per rallentarmi di oltre un paio d’ore sulla tabella di marcia.
La media qui si attesta sui 25km/h.
Ho poca benzina, non posso arrivare a Vanino, ma tanto so сру c’e’ un distributore della AZS a pochi km, 70 da Vanino.
Finalmente arrivo, avro’ ancora 20km di autonomia al massimo…ma…
Il distributore non c’e’, у quando arrivo cio’ сру ту rimane sono solo i piedi dei pilastri della pensilina…deserto attorno.
Sono messo male.
Ho ancora 3-4 litri di 80 ottani da Ulan Ude, nella stagna d’emergenza. Cavolo, che fortuna!
Spero bastino…alla media dei 20km/l dovrei farne sui 60-70, a Vanino ne mancano 55 circa.
Con apprensione, arrivo in centro, e subito mi fiondo alla prima stazione di servizio, 24 litri di 80 ottani riempiono il serbatoio all’orlo, il margine era di poco piu’ di 20km, sono stato fortunato.
Qui decido di andare subito a fare il biglietto per il giorno seguente, la nave partira’ alle 12.
Arrivo al porto ma nessuno parla inglese. Mi dicono di aspettare. Cosa accadra’ ora?
Sento il borbottare di un bicilindrico..e’ un’Africa Twin: sara’ il mio angelo?
Eh si, e’ il mio angelo e si chiama Maks, fa parte dei Black Unicorns, motoclub locale, у mi aiutera’ ad espletare tutte le pratiche, impossibili da completare da soli!
Fatto il biglietto chiedo consiglio su dove alloggiare…no problem, ci pensa lui!
Vitto ed alloggio nella sede del motoclub, per la modica cifra di…0 rubli…tutto gratis per noi motociclisti!!!
Noi?
Si, noi, perche’ c’e’ assieme a me anche un tedesco su Transalp 650 сhe prendera’ lo stesso traghetto.
Motociclisti, strana meravigliosa gente.
Tra le dediche sul libro del club trovo anche questi due italiani! Incredibile!
Sveglia presto, ore 8 si parte per il centro, si espletano le ultime pratiche e poi colazione e spesa prima del traghetto.
L’attesa e’ lunga, estenuante. Faccio una breve ricognizione, il ponte per l’accesso alla nave non e’ rassicurante, pieno di binari ferrati e con assi grosse e distanziate, non sara’ semplicissimo manovrare la moto qui.
Finalmente arriva la nostra nave…in ritardo di 5 ore…che sale a 8 ore perche’ la locomotiva non ha gasolio e non puo’ tirar fuori i pochi vagoni caricati all’interno.
Nel frattempo facciamo amicizia con Watanabe san, giapponese residente a Sapporo ma сру lavora a Yuzhno/Sakhalinsk. Schietto e di poche parole. Sento comunque сhe nascera’ un’amicizia tra noi.
Intanto pranziamo, in attesa del ritardo, ed il solito gruppo di russi su di giri comincia a parlare ed a domandare da dove veniamo, dove andiamo, etc. e finiscono come sempre per offrirci qualcosa: stavolta si tratta di un buon salmone arrosto con vodka e dessert. Grandi.
Via, ci si imbarca..ore 20, piuttosto delle ore 12 previste!
Saluto la Russia continentale, e l’Eurasia, per la prima volta in vita mia, con l’ultimo tramonto su Vanino.
La cena e’ compresa sulla nave, niente di speciale, ma il mio nuovo amico Hartmut, tedesco di 61 anni di Colonia, in viaggio da 3 mesi per l’Asia centrale e la Russia, sembra gradire, e’ un tipo сhe si accontenta di poco, un viaggiatore alla vecchia maniera!
La cabina ha l’oblo’, per fortuna, e ci godiamo le ultime luci della sera prima di addormentarci su uno dei letti piu’ duri su cui abbia mai dormito.
Ore 11. Sakhalin in vista.
Nuvole e frescura in arrivo.
Arrivati al porto, la procedura e’ abbastanza veloce, siamo i primi a scendere.
Watanabe san perde le chiavi della moto…davvero atipico per un giapponese…! Un ufficiale della nave me le consegna e quando le riporto a Watanabe lui e’ contentissimo e diventa amicone. Si offre di farci strada per Sakhalin e di aiutarci a fare i biglietti per Hokkaido.
Si apre una breccia nel cielo, il celeste e’ macchiato solo da qualche candida nuvola, mentre ai lati un paesaggio selvaggio ed ancora apparentemente inesplorato apre le porte della mia fantasia.
Yuzhno-Sakhalinsk e’ un grande villaggio, non si puo’ definire una citta’, come afferma la mia host Victoria; viene da San Pietroburgo e per lei il paragone viene ancora piu’ facilmente.
Con Watanabe san arriviamo alla Bi Tomo per fare il biglietto.
Cominciano le sorprese: qui si fa solo il biglietto passeggeri (190 euro), per la moto bisogna andare a Korsakov. 40km.
Watanabe san e’ gentilissimo e ci accompagna al suo ufficio, dove la sua segretaria Inna ci offre pranzo e the verde freddo. Ottimo.
Da qui partiamo tutti insieme per Korsakov, la gentilezza non ha fine.
Facciamo il biglietto (altri 85 euro) e ci spiegano сhe dovremo cambiare gli yen prima di arrivare in Giappone perche’ la restante parte del biglietto (25.000 yen, 180 euro, e sticaaa…) si paga a Wakkanai prima di uscire dal porto.
Oltre a questo si pagheranno 160 euro (22.000 yen) per l’importazione temporanea della moto senza carnet, comprensiva di 6 mesi di assicurazione. Entro un anno dovremo uscire.
Hartmut ha il carnet de passages en douane, e paghera’ “solo” 18000 yen (130 euro). Il carnet pero’ costa 300 euro…decisamente non conveniente!
Cosi’ in totale la traversata costa 455+160 euro, circa il doppio del previsto!!
Ma per fortuna сhe c’era Watanabe san, senza di lui avremmo perso soltanto molto tempo senza arrivare a niente!
Vado a cambiare yen.
Ho solo le carte, praticamente ho finito i contanti.
Nessuna delle 3 funziona allo sportello, cosi’ devo ritirare al bancomat rubli per poi cambiarli. Il limite di prelievo e’ 7500 rubli per volta e quindi devo ritirare 3 volte per arrivare al totale di 47.000 yen, sommando 15 euro di commissioni.
Ho speso piu’ negli ultimi 3 giorni сhe nell’ultimo mese…piango!!!
I primi 60.000 yen sono in tasca al sicuro, comunque.
Beh, oramai e’ andata cosi’, mi godo un po’ Sakhalin, prima da solo, e poi in compagnia di alcuni amici, alcuni bikers ed altri amici della mia host, conosciuti qui.
E’ incredibile come le occasioni di fare amicizia siano molto piu’ alte qui nel far east, dove la concentrazione di popolazione e’ molto piu’ bassa.
Rimanete sintonizzati…
30 Agosto 2014.
Ore 14.00, fuso orario di Tokyo.
Ore 7.00, fuso orario di Roma.
Dopo quasi 20.000km, 77 giorni di viaggio, centinaia di persone e paesaggi ancora negli occhi e nella mente.
Il sogno diventa realta’.
– GIAPPONE –
Far Eastern Siberia.
Il mio tempo qui ad Ulan Ude è agli sgoccioli.
Non sarà un addio semplice, dopo aver vissuto come in famiglia per oltre 8 giorni in questo modesto appartamento di periferia.
Tuttavia preferisco non pensarci, per adesso la cosa migliore è continuare a godere dei giorni rimanenti, e così approfittiamo per fare qualche attività riposante…e golosa!
Natasha prepara un dolce che sua madre è solita preparare per le occasioni speciali, molto semplice e d’effetto.
Praticamente pan di spagna a cubetti, inzuppato nella smietana addolcita da zucchero e coperto da una cascata di cioccolato fondente fuso.
La variante introdotta da Natasha è stata una banana tagliata a dischetti.
Garantisco che era una specialità, l’ho finito praticamente da solo in 3 giorni!
Per smaltire un po’, il giorno seguente ci dirigiamo verso il tempio buddista di recente costruzione, che si trova in cima ad una collinetta non raggiungibile via bus causa lavori in corso per la strada.
Musiche dalla melodia cinese sono diffuse da altoparlanti, mentre spose buriate sfilano con le amiche tiratissime per qualche foto dal punto più panoramico di Ulan Ude.
All’interno, appena arrivati, i monaci si sistemano e cominciano a gorgheggiare, come solitamente fanno quando devono fare qualche celebrazione particolare.
In questo caso pregano per qualcosa o qualcuno, e le persone fanno la fila presso uno sportello apposito (pagando) per farsi stampare dei cedolini con le proprie preghiere da consegnare ai monaci che li leggeranno cantando e pregando; e qui svanisce anche la sacralità del buddismo, ridotta allo stremo di un negozio di preghiere.
Usciamo in silenzio mai voltando le spalle al Buddha, guai se gli si rivolge la schiena.
Purtroppo a metà ci scappa una risata, perché Natasha mi indica una foto e mi spiega che quella era una persona di Ulan Ude, morta in un incidente…la interrompo e le spiego che quello in realtà è il Dalai Lama e non riusciamo a trattenerci…che figura, tutti a guardarci storto!
Fine giornata in relax.
Mattina sveglia presto, ma non troppo, recupero della moto, sistemazione dei bagagli, con un rito lungo e quasi penoso, ultimo sguardo alla camera che mi ha accolto per così tanto, nessuna nostalgia adesso, ma sento che presto ne sentirò la mancanza.
Saluti, a Natasha ed al babbo Vladimir. Ci rivedremo?
Scendo in “paese” e non resisto: devo fermarmi nella “Lenina square” per fare almeno una foto con la più grande testa di Lenin al mondo.
Chissà se gli entra l’Arai? Secondo me no…il diametro è circa 5m!
La strada dopo Ulan Ude la conosco fino al cinquantacinquesimo chilometro, affrontata per andare a passare la nottata in tenda presso lo “sleeping lion”.
Non male, perfino meglio nei km successivi.
Sono partito tardi ed alle 17 incrocio per la seconda volta la Transiberiana, si vede davvero sporadicamente, io credevo che corresse a fianco della strada, ed invece non è così.
Faccio altri 100km, poco più, poi mi rendo conto che sono già entrato nel fuso orario di Chita, +1 ora rispetto Ulan Ude, e così decido di fermarmi appena possibile.
Trovo un Kafe, chiedo se sia possibile dormire in tenda dentro alla loro recinzione: Da!
Sono visibile dalla strada ma all’interno di un’inferriata, mi sento sicuro abbastanza da dormire.
Mentre mi appresto a montare la tenda ecco che la nuvola nera che avevo reputato non pericolosa scarica un fiume d’acqua a terra, devo trovare riparo percé il parcheggio in cemento dove avrei dormito adesso assomiglia al Baikal in versione ridotta.
Mi sistemo nell’anti-banya (la banya è la sauna russa, molto in voga qui) e spero di non essere disturbato.
Come non detto, fino ed oltre le 23.30 continua ad arrivare gente, oltretutto è pieno di insetti e ragni, decido di togliere le tende e di montare la mia in mezzo al parcheggio nella zona meno bagnata.
Il risveglio è piuttosto buono, non sento la sveglia ma mi alzo per le 8 e per le 9 sono pronto dopo un the caldo e wafer al cioccolato.
Purtroppo devo fare di nuovo i conti col torcicollo che mi perseguita da UU, sarà una lunga giornata di guida.
Mi avevano avvertito che la strada sarebbe stata brutta: ebbene, non ho mai trovato una strada migliore di quella che da Chita va a Khabarovsk.
O forse si, solo quella degli Altai era migliore, ma questa è comunque ottima!
Km #0 del lungo tratto di Transiberiana da Chita a Khabarovsk!
Chissà quanti km potrò fare oggi, mi convinco che se le condizioni del fondo sono queste sarò capace di farne almeno 500.
Mi fermo a fare benzina. Qui costa molto di più rispetto alla Russia prima del Baikal, la 80 ottani si trova difficilmente e costa quanto la 92 ottani di Novosibirsk.
Devo rifare i conti per il budget da destinarsi al carburante.
Conosco due motociclisti che non esitano a fermarsi per salutarmi, sono di S. Pietroburgo e stanno andando a Vladivostok.
Cavolo, in due su una moto, non riuscirò mai a capire come si possa fare a caricare il bagaglio e a non rischiare la vita ogni giorno per queste strade in 2!
Pausa pranzo. Mangio della carne con il pane che mi aveva comprato Vladimir, il padre di Natasha, ed una delle uova che Natasha mi aveva lessato, in questo modo durano fino a 2 settimane, a seconda del clima ovviamente.
Riparto.
Faccio pochi metri e un cartello mi desta l’attenzione. Non ci credo, ogni volta che leggo queste distanze rimango sbalordito.
Vabeh.
Dai, soli millenovecentonovantanove chilometri a Khabarovsk.
E che vuoi che sia.
La strada è dritta, l’asfalto scuro, recente, a volte si sente ancora il profumo del catrame, l’umidità lo fa salire alle narici.
Ogni tanto mi trovo a tu per tu con la moto.
Stai facendo un gran lavoro, grazie di avermi portato fin qui senza mai rogne.
Alla fine della giornata, che reputavo impossibile terminare a Mogocha, eccomi qui dopo 750km circa.
Le medie che si possono temere qui sono altissime e per strada non c’è praticamente nessuno, un vero paradiso del silenzio e della solitudine.
Mogocha è un paese piuttosto grande per la media dei villaggi (pochi) che si incontrano qui nel Far East, e vi trovo una confortevole gastinitsa per 800 rubli.
Appena scoprono che sono italiano, come sempre accade, mi cominciano a raccontare che amano Celentano, Albano, Toto Cutugno: ormai anche io conosco a memoria le loro canzoni pur non avendoli mai ascoltati!
La simpatia che suscito mi permette di mangiare pure a gratis…grazie!
La mattina l’atmosfera è da film horror: nebbia, ancora un po’ buio, sono appena le 7 e dalla finestra vedo questo.
Riparto, non molto riposato e con il collo ancora dolorante, chissà quando mi passerà, finché l’umidità relativa si attesterà ancora al 100% come già da due giorni accade, forse mai!
Il panorama è spettrale, ma suggestivo.
Mi fermo ad Amazar, uno dei villaggi più grandi della zona, dopo aver incontrato per strada alcuni motociclisti australiani che già avevo incontrato ad Ulan Ude, senza presentarmi però.
Faccio due chiacchiere con il “boss” e capisco che si tratta di un tour operator di viaggi in moto; ci scambiamo i contatti, chissà mai che un giorno l’uno non abbia bisogno dell’altro – a buon intenditor poche parole!
Amazar doveva essere la mia frugale pausa pranzo, si è invece trasformata in una regale sosta presso la casetta in legno di questo caro signore, Victor, che mi ha offerto dell’ottima carne di cavallo (ora ho provato anche quella!) corredata di insalata e le immancabili patate in padella.
E’ molto simpatico ed accomodante, ed alla fine mi regala pure della marmellata casalinga di lamponi: la adoro!!!
E’ un fan di Putin e ricorda con nostalgia l’URSS, uno alla vecchia maniera, ex militare, ed è fiero di mostrarmi alcune delle sue foto da marine, anni passati tra Kamchatka, Vietnam ed Etiopia.
Riparto.
Il silenzio del Far East mi stupisce ogni volta che mi fermo, il traffico è finalmente scarno e vedo una macchina ogni 2-3 minuti in media, che è molto, considerando che ci veniamo incontro circa ai 100km/h.
Le foreste corrono spesso lungo la strada. Betulle e abeti.
E’ tardi, ed a pochi km da Shimanovsk trovo, neanche a farlo apposta, un Kafè che sembra soddisfare i miei requisiti di sicurezza.
Chiedo come al solito se sia possibile piantare la tenda, annuiscono, ma mi suggeriscono la loro gastinitsa.
Gli faccio capire che non voglio spendere i miei “dienghi” e così accettano di farmi dormire accanto al Kafe.
Per imbonirmeli mangio da loro, shashlick di maiale con cipolle e due fette di pane non troppo fresco.
La mattina la sveglia è per le 6 in punto, quando mi sveglio la foschia aleggia attorno a me, vedo forse per la prima volta in questo viaggio l’alba.
Come si alza il sole anche la nebbia comincia a salire. Qui nel Far East il punto negativo è sempre questo, l’umidità.
Una rana sembra attendermi per essere fotografata con la calda luce del risveglio.
Riparto.
Dopo la nebbia il tempo si dice sia buono lassù, ma i km da fare sono tanti, e prima o poi dovrò pur beccare di nuovo acqua.
Così è. E’ un giorno bagnato oggi.
Giorno bagnato in cui festeggio i 70.000, approssimati, km di questo motore.
La ciclistica ne ha ormai oltre 110.000. Mitica Hyper Ténéré!
L’ultimo attraversamento della ferrovia.
Di là, a pochi km, c’è Khabarovsk. E l’Amur.
Sergei mi aspetta al primo distributore col suo SX4 arancione.
In pochi minuti siamo a casa sua, dove ceno e faccio due chiacchiere con questa famiglia russa che mi ospiterà per i prossimi giorni a Khabarovsk.
Sto bene. Alla grande. Solo un po’ stanco, la stanchezza di oltre due mesi di viaggio.
Ma c’è qualcosa che non va, qualcosa non mi torna. Ho messo tra me e Ulan Ude 2800km in soli 4 giorni, tutto è filato liscio.
Sento di aver dimenticato qualcosa lì…
From Russia with love
Wow, è già una settimana che sono ad Ulan Ude.
Città magnifica? Qualcosa di imperdibile? No…vi racconterò, ma ripartiamo da dove eravamo rimasti, UB.
Al Gana’s Guesthouse conosco tantissimi Viaggiatori di tutte le razze, tutti con la V maiuscola, e di fronte a loro devo inchinarmi per quanto sono esperti e spensierati.
Conosco un signore di Milano che ha come filosofia di vita il viaggio, ha ereditato una somma dal padre e non smetterà di viaggiare fino a che ce la farà, parole sue, tanto di cappello!
Il dormitorio, 4€ al giorno, è situato sul tetto ed è composto di tante gher, carino anche se un po’…odoroso, diciamo!
Riparto, la moto è a posto nonostante gli sterrati pessimi della Mongolia.
Mi sento un po’ solo, dopo aver affrontato 1800km in compagnia, e dopo aver vissuto la mia prima esperienza in ostello condividendo la giornata con tanti amici.
La strada non è male, ogni tanto devo prestare attenzione alle buche ma si scorre bene; mi fermo a mangiare, zuppetta di manzo con pasta fresca, energia calda che mi farà comodo.
Arrivo a Sukhbataar, forse la seconda città della Mongolia, non c’è niente da vedere, ma all’orizzonte una tempesta si avvicina e mi preparo a prendere l’acqua indossando l’antipioggia Moto One.
Un arcobaleno si fa spazio in uno strappo tra le nuvole, mi mette di buonumore.
Arrivo in frontiera, mi aspetto lunghe operazioni, code interminabili, attese strenuanti, e invece…dopo aver fatto amicizia con una guardia doganale, ed essermi sentito augurare “Buon Viaggio!” in perfetto inglese, in un’ora sono fuori!
Russia, di nuovo, e mica ci credo!
Il paesaggio muta improvvisamente, ai lati della strada scorgo boschi di abete, in Mongolia solo verso la fine ho potuto vedere qualche albero non piantato artificialmente.
La strada è bagnata, non ho un buon presentimento…spero di poter arrivare ad Ulan Ude, poi mi ricordo del cambio del fuso orario e decido di fermarmi, sarei arrivato dopo le 23, troppo tardi.
Mi fermo in un caffè dove vedo 2 bici, magari sono due viaggiatori europei.
Così è, sono 2 francesi in viaggio verso Magadan, due matti direi, perché arriveranno lassù quando farà -30!
Comunque, ci godiamo un buon borsh caldo insieme e chiediamo di dormire in un posto sicuro, ci offrono il retro del Kafe e ci accontentiamo piantando la tenda.
Purtroppo la mattina la sorpresa sarà trovare acqua su tutto il fondo della tenda, il telo verde è stata la mia maledizione.
Ci auguriamo buon viaggio e ci salutiamo sperando di rivederci da qualche parte, sapendo che questo non avverrà forse mai.
La strada per Ulan Ude è breve, solo 100km che scorrono lisci nonostante la pioggia e nonostante un problema “tecnico”: mancanza di benzina!
Sono in riserva da almeno 50km ed ho altri 30km di autonomia, forse, nessuna pompa di benzina nelle vicinanze, poi vedo un gruppo di fuoristrada che riconosco: li avevo già visti in Mongolia!
Mi offrono 1l della loro benzina per fornello, senza questa non sarei mai arrivato alla successiva stazione di servizio…il pieno è 24l, significa che dentro non ne avevo più di 1.5l.
La porta di Ulan Ude mi annuncia che sono entrato nella regione.
Qui trovo Natasha e Rinchina, che mi aspettavano a casa, e subito si rendono molto disponibili offrendomi una doccia, un pasto caldo, ed a ruota un’escursione nel centro città, dove si trova la testa di Lenin più grande del mondo: quasi 8m per 42 tonnellate!
Rinchina è Buriata, la popolazione che occupa storicamente questa parte di territorio, la Buriazia.
Le fattezze sono mongole, anche la lingua è simile, con alcuni termini ricorrenti, e la cucina pure, con base di carne, riso e ravioli; il suo modo di fare ricorda un po’ il Giappone, timida ed estremamente educata, ma forse questa non è una caratteristica comune dei Buriati.
I Buriati sono abbastanza ben integrati con i Russi, ma esistono ancora casi di razzismo.
Appena fuori dal centro si osservano le tipiche case in legno.
La giornata termina rapidamente e dopo una dormita su un bel letto la mattina mi sveglio col profumo di pancakes che Rinchina sta preparando.
Pomeriggio libero.
Contatto Marta, una ragazza svizzera in viaggio verso in Giappone anche lei in moto, adesso via treno, e decidiamo di incontrarci in città.
Ovviamente lei è in perfetto orario, io, in ritardo…!
Ci salutiamo dandoci appuntamento in Giappone come ci saremmo dati appuntamento al bar. Fantastico.
Torno a casa. Natasha ha un cugino che lavora alla fabbrica di aerei ed elicotteri di Ulan Ude, il quale è in grado di fornirci degli inviti allo spettacolo per la celebrazione dei 75 anni.
Incredibile, ho sempre guardato questi spettacoli in video su internet ed adesso i Mig sfrecciano a 100m sopra la mia testa compiendo mirabolanti acrobazie.
C’è il pieno, davvero impossibile contare quante persone ci fossero.
La sera spettacolo pirotecnico e poi a letto, non presto nonostante avessi deciso di andare al Baikal il giorno dopo.
Parto tardi, è quasi mezzogiorno, devo fare 270km circa ma sembrano ottimi, scorrevoli, paesaggio non eccezionale ma piacevole.
Mi fermo per pranzo presso un fiume, scatolette e pane come al solito.
Arrivo al Baikal, al parco nazionale della Holy Nose Peninsula, la strada negli ultimi 60km è stata pessima e qui c’è sabbia a tratti.
Non sono mai cascato in Mongolia, e qui stupidamente inciampo in un banco di sabbia e mi appoggio in terra a 10m dalla destinazione…fanc***!!!
Poco importa, mi sistemo nella spiaggia e subito mi viene dato il benvenuto da uno stormo di uccelli in postazione.
L’acqua non è molto pulita, sarà colpa della sabbia, ed è fredda, ma non come immaginavo, sarà sui 10-15°C.
Sono freddoloso e non oso avvicinarmi se non per bagnarmi i piedi.
Tutta la leggenda che sta dietro al Baikal, non riesco a percepirla: il lago più profondo del mondo, oltre 1600m, contenente 1/5 delle acque dolci del mondo, da qui non sembra così imponente e neanche il vento riesce a trasportare la sua anima, nascosta forse da troppe aspettative.
Manovrare sulla sabbia è stato durissimo e mi concedo un paio d’ore di riposo in tenda prima di preparare un buon riso ai formaggi.
Nel frattempo comincio a sfogliare pure il frasario di giapponese, e mi basta poco per capire che non sarà un’impresa semplice.
Dopo un lungo e riposante sonno sulla sabbia rimetto tutto nelle borse e riparto un po’ assonnato.
La strada all’interno del parco è carina. Sterrato, purtroppo a tratti toulée ondulée, ed abeti ai lati.
Dopo pochi km mi fermo, è già ora di pranzo.
Trovo un piacevole posticino accando a dei laghi “figli” del Baikal.
Ho ancora l’ultima scatoletta di pesce, con ribrezzo mi faccio coraggio e la finisco, dopo averle odiate per tutta la Mongolia.
La sera, dopo essere tornato, giro due-tre supermercati cercando della mozzarella; voglio ricambiare l’ospitalità di Natasha e di suo padre preparando della pizza, ma purtroppo non c’è, sembra che ad Ulan Ude non si trovi niente di simile, così decido di improvvisare una schiacciata.
Sono fortunato e mi riesce molto bene, il sapore è lo stesso di quella che preparo a casa, sono strafelice.
Loro apprezzano e il padre di Natasha addirittura afferma di non mangiare così bene da un sacco di tempo!
La notte passa rapidamente e la mattina pianifichiamo con Natasha un giro in moto su consiglio di Rinchina, andremo a visitare il “leone che dorme”, una conformazione collinare che pare assomigli ad un leone.
Natasha è emozionata, ama le moto.
Oggi è il suo compleanno e regalarle un viaggetto in moto è il minimo.
Dopo neanche 60km arriviamo e dalla cima della collina è possibile ammirare un fantastico scenario.
Scendiamo a valle, vicino al fiume, e sistemiamo la tenda; il posto sembra sicuro.
E’ ora di cena…un appuntamento come questo potrebbe farvi rompere con qualsiasi donna…scomodo a bestia, zuppa liofilizzata e moscerini…ma Natasha sembra gradire, è la prima volta che fa un’esperienza del genere e tutto è una sorpresa per lei.
Il sole va giù ed il freddo comincia a calare, accendiamo il fuoco e cuociamo delle kartoshka (patate) direttamente sulla brace, deliziose.
Si dorme…o perlomeno ci si prova. A domani.
La mattina ci alziamo doloranti ed assonnati, e appena tornati a casa mi cimento di nuovo in cucina, nella preparazione di una torta, stavolta sarà torta alle carote.
Il risultato non è il top ma qui tutti sembrano apprezzare, meglio così.
Beh, che dire, ormai è una settimana che sono qui ad Ulan Ude, adesso avrete capito perché!
Domani dovrei ripartire, un po’ a malincuore devo dire, ma la mia missione ancora non è compiuta.
Tanti saluti!
Ulaanbaatar. Ritorno all'Occidente.
Ripartiamo, con calma, un po’ delusi di non aver trovato una guida per andare al parco nazionale.
In moto sarebbero altri 800km andata e ritorno, tutti in fuoristrada, significherebbe 3-4 giorni di guida; rischioso, siamo già molto stanchi.
Mancano pochi km ad Arvaikheer, dove i miei amici torinesi sanno che c’è una missione cattolica presieduta da Padre Marengo.
Appena arrivati, sono le 13, ci fermiamo per trovare un posticino per mangiare le solite aringhe, intanto chiediamo ad un signore se conoscesse il Padre.
Una telefonata, due parole in inglese, ed il signore ci accompagna con la sua jeep fino alla missione…incredibile, trovata al primo colpo!
La chiesa è realizzata in una gher, per dare meno nell’occhio.
Le famiglie si avvicinano alla missione perché qui offrono docce gratuite 2 volte alla settimana, asilo gratuito ed una serie di servizi che in città non si sognano neanche.
Una presenza silenziosa ed importante, non invasiva a quanto ci è parso.
Ma sono le 13 passate, e la fame aumenta…ci chiedono se abbiamo mangiato..no…neanche a farlo apposta siamo arrivati qui per pranzo e senza batter ciglio le due suore ci preparano delle ottime farfalle al pesto, con frittata, formaggio, pane e dolce finale!!!
Dopo una chiacchierata sulla cultura mongola e su come la missione sia nata e cresciuta, ci spostiamo a visitare gli altri locali.
I mongoli usano questo ricovero per fare tutto quello che non è permesso a casa loro.
Facebook spopola anche qui.
Nell’asilo stanno circa 20 bambini, che il primo mese di frequentazione di solito ingrassano di 3-4kg. Tutta salute!
Questo qua sotto è un bambino, ha i capelli lunghi perché ancora non ha 3 anni, età alla quale gli verranno tagliati a simbolo del passaggio dell’età più critica.
Ci salutiamo tra mille sorrisi e promesse, è stato bello soggiornare qui seppur per poco.
Sulla strada per Kharkhorin, la vecchia capitale, non è raro vedere gher e bambini che giocano vicino alla strada.
Due di loro stavano piangendo per non so cosa.
Li chiamo a me, si avvicinano, gli regalo alcuni adesivi, torna il sorriso e si mettono in posa per una foto.
Come soldatini.
Proseguiamo, le tracce nella valle si moltiplicano.
A volte diventano 10, forse 15, hai l’imbarazzo della scelta.
L’attenzione però va sempre mantenuta alta, sia per la presenza di sabbia a tratti che fa imbarcare la moto, sia per i guidatori mongoli, che non si fanno scrupoli a passarti radente pur di proseguire il loro cammino.
Incrociamo un tempio buddista in stile tibetano.
Quasi abbandonato.
Dopo la breve visita ci fermiamo a pochi km dalla città, in un hotel con campo gher, contrattiamo il prezzo ma è veramente difficile spuntarla, otteniamo 10.000 Tugrit a testa per dormire e doccia.
Mangiamo nella gavetta una calda minestra di pasta e fagioli con secondo di tonno e piselli.
Niente male.
La mattina ci svegliamo con la pioggia ed il freddo.
Imbottisco la tuta Moto One, indosso l’antipioggia.
Tutti bardati partiamo alla volta dei templi della vecchia capitale dei tempi di Gengis Khan, il sanguinario imperatore mongolo vissuto nel 1200.
Un’ora è più che sufficiente per osservarne la storia.
Rimontiamo in sella.
Qualche sprazzo di sole apre il cielo.
E’ ora di pranzo, e tante sono adesso le occasioni per mangiare, ci stiamo riavvicinando alla “civiltà” e le strade sono costellate di locali dove si fa cucina locale.
La preparazione delle vivande non è proprio asettica, diciamo..
Ma l’aspetto finale ed il gusto sono davvero ottimi!
Non so perché ma quando viaggio ho sempre una fame bestiale e quando vedo questi piatti li divoro.
Proseguiamo, la strada è asfaltata, ma è peggio delle piste.
Delle buche che potrebbero inghiottire un’auto si aprono lacerando la superficie scura dell’asfalto, ogni tanto quest’ultimo lascia posto a tratti sterrati con sassi grossi, le vibrazioni sono tremende, ed il pericolo aumenta quando l’asfalto si fa nuovamente liscio ed acceleriamo, ignorando che la prossima buca è lì dietro l’angolo pronta a far saltare i paraolii di Alex o a farci ondeggiare paurosamente.
Le auto non si fanno scrupoli a frenare improvvisamente o spostarsi sull’altra corsia per evitare le asperità, costituendo un gran rischio per noi.
Arriviamo finalmente ad Ulaanbaatar.
La strada è migliorata negli ultimi km, ma il traffico è veramente caotico.
Ci manteniamo in fila ed uniti, in gruppo, mentre attorno è l’anarchia, clacson, sorpassi azzardati, cambiamenti di traiettoria improvvisi: bisogna stare in tensione ogni secondo per evitare il peggio.
Arriviamo al Golden Gobi. Pieno! Ripieghiamo sul Gana’s Guesthouse, in mezzo al campo gher, un posticino non proprio consigliabile, ma hanno una specie di cortile interno dove ricoveriamo le moto.
Le stanze non sono il top a pulizia ma i letti sono comodi e la doccia è calda.
La sera siamo stanchi e non abbiamo voglia di cucinare, ci permettiamo un ristorante coreano per riempire le nostre pance, e godiamo quando ci viene servito questo bendiddio.
Tutto molto speziato, ma ottimo. 8€, neanche.
Il giorno seguente facciamo un breve tour per UB, la mattinata parte per acquisto dei souvenir da parte degli amici torinesi, io skippo, odio comprare souvenir.
UB è una città moderna, all’occidentale, grandi palazzi e nuove costruzioni si fanno spazio dove una volta c’erano delle gher e campi nomadi.
E’ il compleanno di Damiano e festeggiamo con un pranzo mongolo.
Qui siamo proprio nel centro, niente di speciale, una grande piazza, un grande palazzo per il governo, la statua di Sukhbaatar al centro, eroe mongolo che li ha resi indipendenti dalla Cina, ed all’interno dell’ingresso, la rappresentazione del grasso Gengis Khan.
Vicino alla guesthouse c’è anche un tempio, purtroppo è chiuso ma anche da fuori è molto pittoresco.
Per cena facciamo di nuovo festa, prepariamo un chilo e mezzo di spaghetti alla carbonara, ma mancano sale, formaggio ed abbiamo pure poca pancetta…i locali apprezzano ma gli confidiamo che una carbonara così fatta in Italia può significare la galera!
Di nuovo mattina.
Ci separiamo, Guglielmo, Damiano ed Alex mi salutano puntando verso la Russia, ammetto che mi dispiace, dopo aver vissuto una tale esperienza insieme.
Ma la mia strada è ancora verso Est.
Il deserto a 2000 metri.
Il sole splende alto, ma è freddo una volta fuori dalle coperte.
I residenti nella Gher escono fuori vestiti all’occidentale, e sul loro fuoristrada Toyota prendono la via del centro, mentre il ragazzetto rimane a casa.
Gli regalo qualche adesivo e chiedo una foto. Come un soldatino si mette in posa, come d’altronde fanno tutti i mongoli quando punti la macchina verso di loro.
“Good boy!” mi fa, mentre vado via.
Oggi sarà una giornata dura, tutto deserto, piatto e senza variazione di paesaggio, ma non lo sappiamo, così partiamo con grandi aspettative.
Lo spettacolo è desolante.
Guidare qui è stancante e poco stimolante, a volte.
La polvere è ormai già ovunque, non ci faccio più caso, mi abituo a questo pensando che fa più “wild”.
Ogni tanto si trovano dei piccoli (1-2m di diametro) “santuari” dove vengono lasciate offerte buddiste di cibo e chincaglierie varie.
Spesso l’odore qui è forte, il cibo si decompone e puzza.
La strada non è semplice, in più l’aria secca e la polvere ci mettono del suo per aumentare la difficoltà.
La gola è secca, il naso si riempe di pulviscolo e la mucosa lacrima sangue.
Le labbra si spaccano, le mani rattrappiscono dentro i guanti.
Terribile.
Questo cammello deve essere deceduto proprio in seguito a tale secchezza.
Dopo circa 350km di nulla più assoluto decidiamo di fermarci.
Damiano ha avuto nuovamente problemi con la borsa e ci fermiamo per ripararla vicino ad una gher in mezzo alla valle.
Dormiamo praticamente in mezzo a m***a di pecora e sabbia.
Probabilmente qualcosa di questi elementi è pure finito nella gavetta mentre cucinavamo.
Per i prossimi 10 anni non ci ammaleremo, presumo.
Ci godiamo l’ultima luce e dopo una cena a base di minestra liofilizzata (buonissima stasera) ci corichiamo. Metto i tappi, i miei vicini di tenda spesso sono rumorosi…eh eh..
La mattina trovo una sorpresa accanto alla tenda. Al palo è legata una pecora.
Riesco già ad immaginare la sua fine.
Smonto tutto sperando che non mi punti per darmi una capocciata.
Proseguiamo delusi dal percorso del giorno precedente, pensando che anche oggi sarà lo stesso.
Non è così!
Per la prima volte vediamo un animale che solitamente si può osservare solo allo zoo…ha due gobbe, vedo bene?
Si, è proprio un cammello, anzi, sono tanti cammelli, una specie di mandria!
Anche loro pascolano liberamente, ma sono controllati, hanno tutti un fiocco all’orecchio.
Di tanto in tanto si trovano degli aggregati che fanno da crocevia tra una strada e l’altra.
E qui si trovano caratteristici personaggi.
Qua è fantastico. Adoro il silenzio della Mongolia.
E’ una sensazione di pace mai provata prima.
Ci fermiamo in uno spiazzo per mangiare, dopo aver fatto spesa ad Altaj.
Sento un odore particolare, diciamo così.
Accanto a dove mangiamo sorge una sorta di ricovero per animali, ma mi avvicino e in terra vedo tante zolle, come avessero arato all’interno.
No, non sono zolle di terra.
E’ merda.
Qui la seccano per poi bruciarla.
In Mongolia non esistono alberi, per via del deserto e per via del forte vento, perciò si affidano a qualsiasi fonte combustibile si possa trovare.
Persino plastica, polistirolo…diossina pura.
Trovarsi vicino al camino di una gher è un’esperienza da evitare assolutamente, terribile!
Qui oltre ai combustibili fantasiosi si inventano anche murature fantasiose.
Ecco che si può osservare l’opus bottigliatum.
Di nuovo cammelli. Quasi ci si fa l’abitudine.
Lungo la strada le motorette sfrecciano e si sbracciano per salutare.
Addirittura si fermano se tu ti fermi e ti si avvicinano curiosi.
Quando la giornata sembra andare per il meglio, ecco che accade il fattaccio.
Disfatta.
Damiano in mattinata era caduto di nuovo, con ulteriori danni alla moto. Anche la borsa destra era andata, ma sembrava potesse proseguire.
No.
La pista ha deciso per lui che non poteva proseguire.
Dopo aver più volte perso la borsa, che non stava più in sede, l’amarissima decisione.
Continuare così avrebbe significato prendersi troppi rischi e rallentare il gruppo a tempo indefinito.
L’immagine è emblematica.
Il sacco impermeabile ha già preso il suo posto sulla moto, con all’interno tutto il contenuto delle borse rigide.
Addio.
Facciamo gli ultimi 80km verso il prossimo paese.
Appena arrivati siamo l’attrazione per chiunque, come sempre.
Chiediamo dove dormire.
Una chiamata, niente inglese, ma bastano pochi gesti per capire che qualcuno sta arrivando.
E’ una famiglia mongola; ci guidano verso la loro abitazione, dormiremo nella gher accanto al loro manufatto in legno.
E’ la nostra prima notte in gher, siamo eccitati, e dopo aver tirato un po’ sul prezzo otteniamo di dormire e mangiare per 10.000 Tugrit, 4€ per l’esattezza.
La signora ci porta un pasto “pulito” e gustosissimo.
Riso con ketchup, carne di pecora a verdure al forno, davvero squisito.
E l’immancabile chay.
Tutto ottimo…Morfeo ci coglie d’improvviso, e così cadiamo beati in un sonno profondo, dopo giornate intense come quelle passate nel deserto mongolo non è facile rimanere attivi oltre le 22.
La mattina il cielo è terso e siamo tutti di buonumore.
Ogni tanto, nel mezzo del nulla si trovano dei piccoli aggregati più o meno turistici dove delle gher preparano piatti caldi ed offrono posti letto, spesso c’è anche un market nei pressi.
Come ci fermiamo, dalle tipiche tende nomadiche mongole si allungano all’infuori tante facce di bambini e non, che poi prendono coraggio e si avvicinano.
Alcuni sono inizialmente timorosi, ma poi quando li inviti a sedersi sui nostri bolidi non possono resistere.
Ed una manciata di adesivi è sempre sufficiente per farli contenti.
Ci fermiamo a pranzo. Sardine e pane.
Non ne possiamo più, questo è il nostro rancio di mezzogiorno, sardine sempre, o carne in scatola, quasi meglio la pecora.
Poco importa. Siamo fermi al centro di un piccolo parco pubblico in un paesello e ci stupiamo vedendo bambini che ancora giocano all’aperto rincorrendosi senza gli occhi puntati su un display.
E’ una gioia vederli, esprimono vita.
Le facce sono già più diverse, ci stiamo avvicinando al sud e quindi alla Cina.
Gli zigomi si appuntiscono e sporgono di più, il naso e la faccia si appiattiscono.
Ripartiamo. Cammelli, stavolta più in carne.
Non è raro vederne quasi senza gobbe, l’acqua non abbonda certo qui e loro ne risentono, così come i cavalli che a volte sono scheletrici.
La strada oggi si fa più verde e sembra una di quelle che possiamo osservare anche nelle nostre campagne, erba ai lati ed al centro.
Ancora animali, è sorprendente la facilità con cui incontriamo mandrie di cavalli o pecore, in grande numero, pascolare o stando semplicemente con le gambe a mollo nell’unica pozza nel raggio di km e km.
Bayankhongor. Prima di ogni città c’è sempre un tempio in alto su un colle da cui si osserva la valle.
Tornando alla moto continuo a notare il problema della Mongolia, persistente e drammatico a tratti.
La sporcizia è ovunque.
Nel deserto, perfino in mezzo al niente, si trovano bottiglie e confezioni in plastica.
Non c’è cultura del riciclo, la spazzatura è ammucchiata un po’ ovunque, a cielo aperto si aprono puzzolenti discariche.
La città sembra disordinata, a tratti vediamo nuove costruzioni in cemento, realizzate senza molta logica, con pilastri non allineati, senza ponteggi e con pessimo gusto estetico; dall’altra parte notiamo i quartieri più poveri con le gher recintate da staccionate in legno.
Non è raro osservare bambini vendere per strada.
Stasera ci vogliamo godere un po’ di buon cibo mongolo dopo le tante sardine.
Scegliamo un ristorante tra i meno sporchi, ordiniamo scegliendo tra i piatti che vediamo servire ad altri clienti e prendiamo così una minestra di carne di pecora, degli involtini fritti con carne di manzo ed un secondo di carne, riso e verdure.
Risiediamo per oggi in albergo.
Per ottenere una stanza abbiamo discusso quasi mezzora, non riusciamo a capire se i mongoli facciano finta di non capire o non vogliano proprio.
Quando chiediamo qualcosa cominciano a guardare nel vuoto, parlano tra di sé e poi ci ignorano, come se non avessimo chiesto niente.
Alla fine riusciamo ad ottenere di dormire in una stanza quadrupla per poco più di 4€ per uno, con doccia calda.
Mongolia. Storie di un altro mondo.
Saluto Liza, ottima host CS, direi forse la mia preferita per gentilezza, nonostante non parlasse bene inglese.
La strada da Novosibirsk in poi sembra buona, ma la pioggia mi coglie di nuovo, regalandomi la solita sensazione di depressione: odio la pioggia quando viaggio, non mi permette di fare i km che voglio, niente foto o quasi, umido addosso..
Lascio l’Oblast di Novosibirsk ed entro nel Krai di Altai (Oblast è il nome delle regioni interne, Krai quello delle regioni di confine).
Devo ripiegare sulla solita gastinitza, soliti 1200 rubli. E’ pulita ed accogliente, ma l’indomani forse sarà ancora brutto tempo, chissà, intanto i pensieri non sono dei migliori…
La mattina mi sveglio di buona lena, alle 6.30, per percorrere tutti i 550km che mancano al confine, ed il dolce che mi aveva preparato Liza il giorno prima è un’ottimo carburante per partire bene.
Entro nella Repubblica di Altai ed il paesaggio si fa interessante, cominciamo a salire e ai lati si ergono montagne sempre più verdi ed alte.
La mia media si attesta sugli 80, per preservare le gomme che mi avevano avvertito essere molto morbide e poco durevoli.
Questo fa sì che mi superino diversi mezzi, non ci faccio caso, finché ad un certo punto non mi superano due moto…interessante, un Transalp ed un’Africa Twin, con tutta l’apparenza di andare verso la Mongolia: li seguo accelerando un po’.
Si fermano, mi fermo anche io – “Are you going to Mongolia?” “Yes, you?” “Me too!” “Ok let’s go!”.
Amo il popolo motociclistico, 2 parole e ci siamo già intesi. Loro sono una coppia sposata ed un amico, Ungaro-Rumeni.
Il Katun, fiume che dalla Mongolia scorre verso la Russia attraverso gli Altai, ha acque veloci e torbide, che ogni tanto danno luogo ad anse e paesaggi spettacolari come questo.
Si prosegue, arriviamo a Kosh Agach, dove dormiamo in una camera tripla, ma in 4, spendendo 500 rubli a testa, non male. Ultimamente le Gastinitza sono molto pulite e c’è il divieto di entrare con le scarpe/stivali.
La mattina dopo riprenderemo il cammino verso Tashanta, mancano solo 50km ed oggi, Domenica, la frontiera è chiusa.
La mattina non c’è corrente, mancava dalla sera, ma pensavamo la “spengessero” per risparmiare in queste regioni così remote, invece è un blackout della regione intera ed i generatori sono accesi per mandare avanti le attività più importanti come polizia, ospedali etc. ma nel supermercato i conti si fanno con la calcolatrice e la coda si allunga.
Si arriva a Tashanta, che emozione, siamo quasi in Mongolia!
La coda per la frontiera è lunga, e non si salta pur essendo mezzi “leggeri”, così attendiamo diverse ore, e nel frattempo ci raggiungono altri 3 motociclisti con BMW GS e…sono italiani, di Torino, incredibile!
Facciamo gruppo ed espletiamo insieme le pratiche per il passaggio in terra mongola, che ci rendiamo conto essere così lunghe perché i cittadini dell’Asia centrale viaggiano stipati come sardine in piccoli van che trasportano di tutto, e così la polizia deve fare molta attenzione agli eventuali trafficanti.
Ci siamo…gli ultimi km di sterrato, gli ultimi controlli alla frontiera mongola e….MONGOLIA!
Gli ungaro-rumeni ci hanno lasciati perché volevano sistemarsi presto per risolvere un loro problema alla moto, forse li ritroveremo strada facendo.
Appena entrato l’aria che si respira è già diversa.
Comincia lo sterrato, e come benvenuto troviamo un Land Cruiser rovesciato con una gran botta davanti, e due corpi coperti a fianco, mentre una trentina di persone ai bordi della strada piangono, con solo un poliziotto addetto al controllo.
I miei nuovi compagni arrivano: Guglielmo, Alex e…manca Damiano?
Torniamo indietro, è caduto, e sta sistemando la borsa sinistra sulla moto, che nella caduta ha rotto il supporto (in plastica!) che la teneva appesa al telaio.
Decidiamo di fare pochi km per fermarci a dormire e svegliarci presto per permettere un cambio gomme e la riparazione della borsa.
Ci fermiamo nel primo villaggio, e mentre facciamo benzina arrivano dei bimbi come mosche sul miele: ci si appiccicano e non si staccano finché non gli regalo degli adesivi.
Le facce sono Kazakhe o forse Uzbeke, occhi a mandorla ma visi caucasici.
Un mongolo che era alla pompa di benzina si propone per “ospitarci”, la cifra è 10.000 Tugrit per vitto ed alloggio, 4€, mica male, lo seguiamo!
La cena è a base di palline di pane, burro rancido che a dire il vero non ha un gran sapore, riso e carne di pecora, e poi la specialità: latte di cavalla!
Il latte di cavalla non è pastorizzato e ce lo servono come una prelibatezza. Vi descriverò il suo sapore.
Sembra di bere yogurt irrancidito allungato con acqua, frizzantino e dal retrogusto di lievito di birra. Pessimo…le nostre facce non mentono ed i mongoli ridono.
Noi gli facciamo assaggiare il caffè, senza zucchero. Le parti si invertono e le facce schifate stavolta le hanno loro.
La mattina cambiamo le gomme, ma prima c’è una sorpresa: il latte di cavalla non era offerto, ma andava pagato a parte! Ci chiede altri 10.000 Tugrit a testa, gliene diamo 5.000 e si accontentano salutandoci con gran sorrisi.
Arriviamo dal gommista. Ma dove è il gommista?
Si, il gommista è lui, avrà 10-12 anni, ma ha una padronanza della tecnica straordinaria per la sua età…se pensiamo a cosa fanno i nostri dodicenni…beh…
La strada si fa sterrata dopo circa 40km, ci aspettiamo che la Mongolia sarà tutta così per migliaia ancora.
Ogni circa 3-400km si presenta una “città” con i servizi più importanti e tratti più o meno lunghi di asfalto.
Olgii. I bambini continuano a correrci incontro come matti, come se vedessero dei campioni della Parigi-Pechino.
Il paesaggio è mutevole, si vedono laghi, montagne e sullo sfondo ogni tanto anche della neve.
Qui hanno tutti motociclette cinesi da due lire, viaggiano da un minimo di due ad un massimo indefinito generalmente attorno a 5, e senza casco.
La segnaletica è in cirillico. Menomale, il mongolo antico è come l’arabo, solo che si scrive dall’alto verso il basso.
Si trova sabbia lungo il tracciato, si ha difficoltà ogni tanto a gestire la mole di queste moto.
Ad un certo punto scorgo qualcosa di davvero interessante, sembra un falconiere, con un’aquila, e suo figlio a gran gesti mi invita giù da loro. Vado.
Mi indica il lazo con cui è tenuta l’aquila, io rifiuto, ma il padre mi mette a sedere su un piccolo cumulo, forse di m***a, e senza darmi tempo di pensare mi ritrovo col guantone e l’aquila a pochi cm dalla faccia. Ha degli artigli come dita ed un’apertura alare pazzesca. Che bella.
Ci chiede 5000 Tugrit mentre torniamo alle moto…ma qui si paga tutto! Gliene do 1000 e saluto.
I cavalli sembrano in cattività ma in realtà sono tutti marchiati, però pascolano liberamente.
Si aprono, ogni tanto, gran dirittoni, do fondo all’8 e mezzo raggiungendo anche i 120 orari.
Le buche che compaiono senza preavviso, a causa delle ombre inesistenti o quasi, mi convincono a desistere e mantenere una media più bassa.
Il toulée ondulée è presente quasi ovunque. Per evitare vibrazioni si devono tenere gli 80-100, ma il problema delle buche suggerisce di vibrare un po’ ma mantenere la sicurezza.
Oggi facciamo anche 3 guadi, il peggiore sarà una 40ina di cm con bei sassoni sul fondo.
Alex col suo 1100 lo fa senza problemi, io pure, ma Guglielmo e Damiano hanno qualche problema.
A Guglielmo si spenge la moto perché dell’acqua è entrata nei condotti aria, e dobbiamo portarlo a riva a spinta, mentre Damiano cade all’ultimo ed anche lui imbarca acqua. Spinta.
Le moto ripartono dopo una decina di minuti, mancano decine di km al prossimo paese ma è quasi buio, decidiamo comunque di tirare per arrivare a Khovd.
Non vediamo quasi niente e gli ultimi 5km sono una vera e propria pista di sabbia, è difficile tenere le moto dritte e Damiano cade di nuovo, senza conseguenze.
Ci accampiamo finalmente al limitare della città, nel campo Gher.
Un bambino esce fuori e chiediamo di dormire, permesso accordato…esce poi anche la mamma, chiediamo di nuovo “Can we sleep here?” e lei fa “Of course!”.
Rimaniamo stupiti. Qui, che parlano inglese?
La notte si fa fredda, ci chiudiamo nelle tende dopo una cena condivisa.