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Corea - toccata e fuga
Corea.
Corea? Già, che c’entra?!
Partiamo dall’inizio: il permesso temporaneo per visitare il Giappone è valido 90 giorni, ed i miei sarebbero scaduti il 28 novembre, il che non mi avrebbe permesso di attendere entro i confini nazionali la consegna dell’ambito certificato di eleggibilità e del conseguente visto lavorativo (già, visto lavorativo, nel prossimo articolo vi parlerò anche di questo).
Quindi, la soluzione più semplice è quella di uscire e rientrare, e la via più breve, economica e burocraticamente semplice è…andare in Corea!
Così dalla mattina alla sera mi ritrovo con un biglietto prenotato per Seoul, al prezzo di circa 140€, e dato che ormai devo buttare al vento un po’ di “spiccioli” decido di fare un piccolo investimento, e con poco meno del doppio rimango in Corea 5 giorni per visitare il 13° stato di questo viaggio, anche se senza la mia cavalcatura.
Parto da Narita, l’aeroporto di riferimento di Tokyo, anche se la prefettura è quella di Chiba: scomodo, perché lontano più di un’ora dai distretti centrali, e costoso raggiungerlo, a meno che come me non si decida di prendere la via più lunga (JR linea locale) che spendendo una mezzora in più fa risparmiare oltre la metà dei soldi, tra i 1200 ed i 1500Yen anziché 3000.
La compagnia scelta è la Eastar Jet, praticamente la Ryanair coreana.
Accendo il GPS, per curiosità, e scopro che l’aereo viaggia alla media di 660km/h ad un’altezza di circa 3500m, anche se in realtà dovrei esprimermi in miglia orarie per la velocità ed in piedi per l’altezza…ma vabeh!
In breve copriamo i circa 900km che separano in linea retta Tokyo da Seoul, mai presa una via più diretta fino ad ora in questo viaggio!
Arrivo all’Incheon e per prima cosa cambio gli ultimi dollari rimastimi in KRW, ovvero Won coreani, il cambio è 1$=1000KRW circa, per l’euro stiamo sui 1340KRW invece…mi sembra di essere ricco, ma quando vedo i prezzi sembra che tutto costi troppo per le cifre in eccesso!
Nonostante arrivi alle 14.30, anche l’Incheon essendo lontano da Seoul non mi permette di arrivare dal mio host Couchsurfing HA (si, si chiama HA!) prima delle 17, e poi, mentre che aspetto che lui termini la sua giornata lavorativa, si fanno le 19: andiamo in centro e ceniamo in una “bettola”, dove ci raggiungono anche un paio di suoi amici e “Stella”.
Chi è Stella? Ve lo racconto dopo, una cosa per volta…adesso gustiamoci un po’ di “pizza” coreana, una specie di frittate, o pancake, non saprei come chiamarle, con verdure e carne, ed una scarica di “side dishes”, ovvero contorni, che qui in Corea sono gratuiti e ne portano a volontà insieme al piatto principale.
E’ stato il compleanno di HA proprio l’altro ieri, ed ancora non ha festeggiato…beh, questa è l’occasione giusta, e approfittiamo per far festa!
Al termine della serata dobbiamo rincasare immediatamente, prima che alle 23.30 chiuda la metropolitana; noto con piacere che qui i trasporti costano molto poco, con 1000KRW si va praticamente ovunque, ed anche il trasferimento in treno per il centro di Seoul è costato un buon 70% in meno di quello da Tokyo a Narita.
Ed il bello è che i treni sono efficienti, puliti, moderni, con la maggior parte delle stazioni tipo “tube” di Londra. Un + alla Corea.
Un – invece perché le persone non sembrano ancora aver capito la regola che bisogna prima lasciare uscire e poi entrare…beh però simpatici, come da noi in Italia, ah ah!
Comincia il self-tour di Seoul, con dietro il GPS con tutti i waypoint segnati mi faccio da una parte e risalgo la città prima da sud a nord e poi da ovest a est.
Scendo alla stazione city hall, dove ovviamente c’è il municipio, che non può non essere un edificio particolare, ed appena esco dalla scala della metropolitana mi si para davanti agli occhi un’estrusione tridimensionale di vetro ed acciaio combinati in un’opera d’arte moderna.
Prendo la direttrice principale, che conduce dritta verso Gyeongbokgung, il più grande dei palazzi delle dinastie reali coreane.
E cosa mi trovo davanti?!
Uno smanettone…ma non smanettone motociclista, ovvero non solo, questo è pure smanettone da smartphone: ne ha ben 4 (quattro) montati su di un supporto artigianale provvisto anche di parasole…incredibile, Corea, il paese della Samsung!
Lungo il tragitto trovo anche l’ingresso al palazzo Deoksugung, che per il momento decido di evitare.
La porta di ingresso ricorda un po’ lo stile che si trova in Giappone, e allora sorge spontanea la domanda: è nato prima l’uovo o la gallina?
Chi per primo ha cominciato a costruire in legno con queste architetture e colori?
Mi avvicino al palazzo, mentre sorpasso la statua del re Sejong, ricordato da tutti come l’inventore dell’alfabeto fonetico coreano.
Il palazzo si avvicina, e man mano che ne carpisco il dettaglio riconosco che la sua porta è quella famosa che si vede spesso nei depliant.
Si paga un tot per l’ingresso, sui 2-3€ che valgono quello che si trova all’interno, una serie di porte ed un palazzo, attorniati da cinte murarie e vari altri edifici, in parte (gran parte a occhio) ricostruiti dopo l’incendio parziale appiccato dai giapponesi durante l’invasione del 16° secolo (poi si capisce come mai tra coreani e giapponesi non scorra buon sangue) e l’abbandono per mancanza di fondi per il restauro fino agli anni ’60 del XX secolo.
Un altro aspetto in cui la Corea è simile al Giappone sono i combini, molto diffusi e allo stesso modo comodi: compro un bento coreano con cotoletta di maiale, riso e curry coreano, molto più piccante di quello giapponese, scoprirò poi che la cucina coreana è generalmente piccante.
Il tutto mi costa circa un 20-30% in meno che in Giappone.
Curioso, chissà a quanto ammontano i salari, dato che il costo della vita è genericamente abbastanza inferiore.
A pancia piena mi dirigo verso l’altro obbiettivo della giornata, il complesso palaziale di Changdeokgung, dove oltre alle innumerevoli costruzioni che ricordano un labirinto, ed ad alcuni notevoli palazzi, trovo pure un grande parco piacevole da scoprire mentre le foglie si ingialliscono o si illuminano di rosso fuoco.
Nel mezzo del parco si trova il padiglione esagonale Hyangwon, esattamente lo stesso amico della mia amica coreana (in realtà il nome completo del padiglione è Hyangwon-Jeong).
E’ ancora presto, e non essendo caldissimo (ci sono sui 5-6 gradi in meno che a Tokyo) decido di farmi una scarpinata fino al Bukchon Hanok village, un distretto dove è ben conservato il tessuto urbano di Seoul così come era 600 anni fa; al 99% è una ricostruzione fedele folcloristica destinata perlopiù ai turisti, dove però ancora vive la cittadinanza.
Ancora la serata non è finita e provo a visitare il famoso tempio Jongmyo, purtroppo quando arrivo al cancello poco dopo le 16, questo è già chiuso, così devo rimandare al giorno dopo.
Hyangwon (Stella, vi ricordate? Si fa chiamare così perché ha vissuto in Italia 7 anni tra Milano ed Arezzo) mi aspetta alle 19.30, appena uscita da lavoro, in zona Jongno-gu, stasera dovremmo mangiare qualcosa di più coreano rispetto a ieri, a base di harne come dice lei ricordando ancora il toscano.
C’è anche una sua amica, Unjo, collega sottoposta, il clima però è amichevole nonostante il rapporto di lavoro.
Mangiamo carne alla griglia che cuciniamo sul posto, si chiama gogigui ed è simile allo yakiniku giapponese, ottimo davvero!
Per finire la serata poi andiamo alla Namsan Tower, dove né Hyangwon né Unjo erano mai state…incredibile, vivono qui da sempre e “per colpa mia” adesso ci salgono per la prima volta!
Poi mi spiegano che avrebbero preferito rimandare perché il luogo è molto romantico e generalmente ci si va col fidanzato…vabbeh!
Il panorama è notevole, ma molto diverso da quello di Tokyo, almeno così mi pare, sarà il gioco di prospettiva diverso, qui siamo infatti in una posizione sopraelevata in mezzo al Namsan park.
Mi sveglio di buona lena e stavolta parto all’esplorazione dal lato est della città, dalla porta di ingresso alla città Heunginjimun.
Mi perdo un po’ tra le viuzze di questo quartiere, un groviglio di cavi penzolanti ed un’invasione di cartelli fanno di questa strada il regno del caos, ma a queste scene sono abituato anche in Giappone.
Mi dirigo alla piazza del design, che guarda caso ospita il padiglione di Zaha Hadid, ben riconoscibile per le forme astratte che ricordano equazioni di chissà quale branca della geometria analitica.
Tanti venditori ambulanti vendono il proprio prodotto in mezzo alla strada, qualunque cosa essa sia, e nessuno si fa scrupoli a vendere (o comprare) pesce tenuto nel bel mezzo di un marciapiede a fianco di una strada trafficata, sfilettato sul momento da un pescivendolo con chissà quali requisiti igienici!
Proprio a fianco del pescivendolo mi dà nell’occhio un mercato coperto: adoro i mercati, qui si vede di solito l’anima del popolo.
Sembra sporco, c’è odore di cibo ovunque, praticamente mi trovo all’interno di una enorme cucina open-air, fantastico, e tutto quello che è esposto sembra così tipicamente antica cucina coreana.
Fanculo alla sporcizia, voglio godere senza pensare a nessun tipo di igiene, e così mi metto a tavola al banco che più mi ispira (ce ne saranno stati oltre 100 e li ho tutti studiati bene prima di arrivare alla decisione!) e ordino alla simpatica cuoca degli gnocchi piccanti (sujebi) ed il sushiroll coreano (gimbap, che contiene verdure anziché pesce).
Veramente deliziosi…la porzione è abbondante ed a parte la signora mi serve pure un brodino delicato con tofu fritto.
Esco soddisfatto avendo speso neanche 5€, e rimpiango il fatto di non averlo scoperto prima, ci sarebbe da mangiarci tutti i giorni sedendosi a rotazione a tavoli sempre diversi e mangiando ogni volta pietanze dai gusti disparati.
Proseguendo verso il tempio noto un grande assembramento di anziani, mi avvicino e scopro quello che sembrerebbe il gioco nazionale: si chiama Go, e consiste in una tavola di legno con una griglia su cui si devono muovere dei confetti di plastica bianchi o neri.
Confesso che non ho avuto la pazienza di stare a capirne le regole, ma tutti quanti sembravano interessatissimi dall’esito delle partite e dalla tattica.
Un’altra cosa in cui la Corea assomiglia alla Cina (il Go è un gioco molto popolare in Cina) è la meditazione zen in mezzo ai parchi o addirittura in città, come questo gruppetto di anziani concentratissimi ad esercitarsi.
Finalmente arrivo all’ingresso del Jongmyo.
Scopro che esistono solo visite guidate, la cosa non mi fa impazzire, di solito preferisco fare i miei comodi impiegando il mio tempo e girando dove mi cade l’attenzione.
Beh, poco male, per una volta mi adeguo, e la guida ci introduce all’area del tempio.
I colori sono splendidi e la spiegazione è puntuale.
Anche questo tempio fu incendiato durante l’invasione giapponese (ancora nelle parole dei coreani si legge un profondo rammarico ed odio verso quello che è stato).
Il tempio principale consiste in un larghissimo edificio con ben 19 stanze dove sono sepolti i membri della famiglia reale.
Esco, soddisfatto anche se i tempi della visita erano calcolati, e mi trovo davanti ad uno sciopero.
Sciopero??
In Giappone lo sciopero non è concepito, non esiste proprio, ed in Corea invece mi vedo questo corteo: paesi simili ma molto diversi!
Mi spingo fino al mercato di Namdaemoon, che pensavo essere molto tradizionale ed invece vendeva al 90% cianfrusaglie e cineserie varie.
Insoddisfatto…speravo di trovare qualche oggetto carino da regalare ai miei amici giapponesi, ma niente da fare.
L’ultima meta della serata è infine la porta di ingresso sud, che si chiama come il mercato.
Distrutta nel 2008 da un pazzo piromane, è stata completamente ricostruita ed appare adesso al massimo del suo passato splendore.
L’intervento di ripristino è eccellente, la porta è imponente, anche se oramai in mezzo ai grattacieli sembra un nano.
L’ultima sera a Seoul andiamo con Hyangwon a Gangnam (si, il quartiere reso famoso da Psy, cantante coreano di “Gangnam style”) per l’ultima cena.
Il quartiere è quello dei nuovi ricchi, i giovani che hanno fatto soldi velocemente, e lo vogliono dare a vedere; il riassunto è appunto ben descritto, anche se enfatizzato, dal video di Psy.
La tavola si riempie di cibo e di mille piattini diversi, non so mai da dove cominciare!
Al termine sono sfinito, ma nonostante la quantità immensa di cibo servito il conto non è molto più alto di quanto non sarebbe in Italia il classico pizza e birra.
Torniamo con un amico di Hyangwon a Yongin, sua città di residenza, a circa 40km dalla capitale.
Fa più freddo, ma casa sua è accogliente e suo padre mi abbraccia come fossi suo amico da sempre…calorosi questi coreani!
La mattina dopo ci riposiamo un po’ di più, Hyangwon lavora molto (anche in Corea il lavoro è duro come in Giappone), e poco prima di pranzo andiamo al villaggio folcloristico qui vicino, dove è ricreato un antico villaggio coreano, con spiegata la cultura, la tradizione, e la storia.
Il Kimchi, come si faceva una volta: la verdura (cavolo cinese) era raccolta e conservata in grandi vasi che si mettevano spesso sottoterra, dove maturava per circa un mese.
Adesso ci sono elettrodomestici specifici che fanno lo stesso lavoro in modo più conveniente.
Ancora non ho capito come si chiami questo albero, che ha i colori autunnali più forti ed accesi…qualcuno lo conosce?
A pranzo scartiamo il nostro pasto e scopro che Hyangwon ha preparato dei panini con pane toscano e prosciutto, salame, e coppa…wow, fantastico…non è autentico al 100% ma apprezzo moltissimo la gentilezza ed il pensiero!!!
Finito il giro, torniamo a casa sua, che mi ricorda, come molti altri palazzi qua in Corea, i palazzi sovietici in versione moderna: con grandi numeri sul fianco, proprio come nei paesi ex URSS.
Chiaccherando con Hyangwon scopro che gli stipendi medi in Corea sono molto simili a quelli giapponesi, forse inferiori di circa il 10%, ma se si pensa che il costo della vita è in media inferiore del 30%, qui si ha un potere di acquisto maggiore…altro punto per la Corea!
Per cena si replica con cucina italiana: spaghettata, salumi, insalata e…OLIO TOSCANO!
Questo è stato il regalo più bello, autentico olio toscano, ed un sapore che evoca mille ricordi!
Subito dopo cena devo tornare a Seoul, per passare l’ultima notte da HA, di nuovo, che così pazientemente ha ospitato la mia roba a casa sua; da qui potrò raggiungere meglio l’Incheon.
Mi mancherà l’ospitalità coreana e quella di Hyangwon, che quasi non conoscendomi mi ha fatto sentire come a casa.
Un’ultima occhiata a Seoul, Namdaemoon.
Un nuovo sole sorge da Est, indicandomi la direzione da seguire per tornare di nuovo a…casa..
Impressione generale del popolo coreano?
Lo definirei un po’ come il popolo del sud da noi in Italia: più aperti, sgangherati, semplici da interpretare, senza retoriche nascoste. Bella gente.
Il timido Monte Fuji
Hokkaido, fattoria di Saeki: arrivano molti avventori, camminatori professionisti e non che percorrono il “Kiraway”, il percorso ideato da Saeki della lunghezza totale di 71.4km di cui io ne ho percorsi una decina.
Uno degli impavidi che ha terminato tutti i 71.4km (in 2 giorni!) è Naoyuki, che per la notte si ferma nella fattoria.
Scambiamo due parole e capiamo che entrambi abbiamo come obiettivo Tokyo, dove Naoyuki lavora già e studia presso il college, così decidiamo di tenerci in contatto.
Arrivato a Tokyo ecco che con la puntualità giapponese arriva anche il suo messaggio di benvenuto, con “allegato” l’invito a fare un giro attorno al Fuji con lui in auto.
E così, domenica scorsa ci siamo trovati alla stazione di Noborito, Tokyo ovest, per partire alla volta della prefettura di Shizuoka e Yamanashi. Anche Jim, un mio coinquilino, si unisce alla banda.
Dopo poco meno di un centinaio di km di autostrada ecco che arriviamo al lago Kawaguchiko, dove a differenza di Tokyo la trasformazione della natura ha già preso atto, ed è fantastico vedere come gli alberi siano tinti di mille sfumature, dal verde estivo al rosso intensissimo, quasi fosforescente, dell’autunno.
Rimango davvero stupito di ciò di cui sia capace la natura qui in Giappone, i colori in foto sono naturali, le tonalità sono veramente quelle accese delle tempere, e mai avevo visto dei rossi così saturi.
Ripartiamo verso un luogo panoramico, e comincio ad avere il sospetto che Naoyuki, da buon giapponese, abbia programmato tutto nel dettaglio!
Purtroppo, come avevamo immaginato, il Monte Fuji è coperto da una coltre di nuvole che lo avvolge, sembra quasi stritolandolo, e quindi il perfetto cono di oltre 3700m non è visibile e neanche avvertibile, dato che le nubi gli arrivano praticamente ai piedi.
Ma lo spettacolo dalla parte opposta è comunque straordinario: una colata lavica alle nostre spalle ha dato luogo, centinaia o forse migliaia di anni fa, ad una valle dove è cresciuta una speciale foresta, che a chiazze si sta tingendo anch’essa di rosso e giallo.
Ogni dubbio è fugato quando Naoyuki ci annuncia che adesso andremo a visitare un villaggio tipico giapponese: è chiaro che si è studiato tutto prima di partire, e questo è gratificante, dimostra che l’ospite, come sempre, qui in Giappone è sacro e gli va riservato il migliore dei trattamenti, ma dimostra anche la puntigliosità e l’estrema accuratezza di questo popolo nel fare qualunque cosa, dal lavoro allo svago; a volte può essere un fattore negativo, perché poco lascia all’immaginazione, ma oggi sono contento perché quando passai di qui tempo addietro, a fine settembre, non vidi niente di quello di cui oggi so godendo.
Il mercato alle porte del villaggio vende alcune stranezze, tra cui calabroni sotto spirito; questi devono essere i famosi calabroni giganti giapponesi, fanno spavento per quanto sono grandi alcuni di essi!
Entriamo nel villaggio, che è chiaramente una ricostruzione, anche perché, come spiegano alcune immagini, a inizio ‘900 c’è stata una grande frana che ha portato via l’originale con una ondata di fango distruttrice.
L’aria è paciosa e verrebbe voglia di tornare indietro di qualche decina di anni per capire come si viveva veramente in questo luogo.
All’interno di questo museo all’aperto si trovano artigiani e coltivazioni tradizionali, come ad esempio quella della radice di wasabi, che come il riso ha bisogno di essere coltivato immerso nell’acqua, addirittura qui piccoli canaletti convogliano un flusso continuo di acqua entro un terreno speciale fatto di ghiaia lavica.
Il problema nella produzione del wasabi è proprio l’approvvigionamento dell’acqua, perciò sembra che prima o poi l’agricoltura sarà in difficoltà nel rispondere alla domanda di wasabi giapponese.
Si riparte, mi vengono in mente i tour guidati giapponesi, quando i turisti del sol levante vengono in Italia ed in 5 giorni si vedono 6 città, un ritmo pazzesco, ma li capisco anche, in media i giapponesi hanno 10 giorni di ferie l’anno e il tempo a disposizione va sfruttato a fondo!
Arriviamo alle cascate di Shiraito, sono famose non tanto per l’altezza o la mole d’acqua, ma per la larghezza di una delle 2 cascate.
Il panorama delle cascate è stato designato più volte da più associazioni come meritevole di salvaguardia e dal 2013 è entrato a far parte anche dei patrimoni protetti dall’Unesco insieme al parco del Fujisan.
La giornata ha il suo termine qui, e mentre ci allontaniamo, evitando di passare dal Fuji Skyline perché non avremmo potuto ammirare il panorama causa nubi, ecco che il timido Monte Fuji comincia a svelarsi nell’oscurità.
Naoyuki ha una sorpresa però, ancora non è finita: sconfiniamo nella prefettura di Yamanashi per arrivare all’Onsen più bello che abbia mai visto.
Ovviamente non si possono scattare foto all’interno, ma dal piazzale soprastante ho rubato questo scatto che forse dà l’idea del grado di relax che si può raggiungere immersi nell’acqua calda, all’ombra delle stelle, con un panorama del genere.
Dopo aver recuperato le forze grazie al bagno caldo, ci rimettiamo in marcia verso Tokyo, con una fermata all'”Autogrill” giapponese per una mangiata da re: Tonkatsu al curry, una delizia che non avevo ancora assaggiato, la ciliegina sulla torta per terminare alla grande una giornata sensazionale, grazie Naoyuki!!!
Il regalo più bello.
Sono sempre stato uno molto legato alla famiglia, vuoi perché sono stato il primo della mia generazione, il più coccolato, quello che forse ha ricevuto di più e meglio a livello materiale, di esperienza, educazione, ed è perciò che la famiglia per me rimane al posto numero 1.
Ieri ho festeggiato il mio primo compleanno intercontinentale, fuori dai confini italiani, a 20.000km da casa, con nuovi amici ma in assenza delle persone che hanno fatto parte della mia vita da sempre.
Triste?
No, non è stato triste, anzi, direi quasi entusiasmante, festeggiare un traguardo così importante in un momento topico della vita, in cui si deciderà un futuro più o meno simile a quello delle aspettative e delle ambizioni.
Però mi sono mancati quei momenti in cui coglievamo l’occasione, con la scusa del compleanno, di trovarci tutti insieme attorno ad una tavola per festeggiare, dato che da quando siamo diventati “grandi” le occasioni per stare insieme sono diventate sempre più rare, tra impegni dell’uno o dell’altro.
Adesso, per “colpa” mia questo non è potuto accadere…
La soluzione l’ha trovata mia sorella Irene, dandosi da fare per realizzare un emozionante video dove ha raccolto gli auguri di amici, colleghi e parenti, per una lunga videodedica da lucciconi.
Non ho parole per esprimere la mia riconoscenza: è stato un regalo inaspettato e sinceramente il più bello che potessi ricevere!
Grazie perciò a tutti coloro che mi hanno dedicato qualche parola e che hanno figurato in questo video…emozioni uniche che solo una famiglia e degli amici come i miei potevano regalarmi!!
GRAZIE!!!
27 anni fa nascevo a Firenze, mentre 4 mesi fa da lì partivo per arrivare a Tokyo.
Se mi sento realizzato?
Si e no, non si finisce mai di apprendere, e la curiosità, adesso più verso le mie capacità che non verso il mondo che mi circonda, mi spingono a cercare sempre qualche motivazione in più per vivere la vita appieno e con soddisfazione.
Novità in arrivo!
Arai. Mettici la testa!
Da cosa nasce cosa, e dalla collaborazione con BER Racing, importatori ufficiali Arai in Italia e Spagna, è nato un contatto con la sede giapponese di Arai Helmet Co. Ltd.
Francesco e Giacomo Bombarda, insieme al loro ufficio stampa, hanno creduto in me fin dall’inizio, e ciliegina nella torta, mi hanno dato la possibilità di andare a conoscere di persona Mr Arai e toccare con mano la differenza che fanno in questa azienda al limitare di Tokyo, esattamente ad Omiya, prefettura di Saitama.
Parto la mattina presto dalla mia nuova residenza a Tokyo, Sendagaya, non c’è molto traffico e riesco a “navigare” bene trovando una scorciatoia di oltre 10km rispetto alla strada suggerita dal navigatore, che qua in Giappone non funziona a dovere.
Riesco addirittura a fermarmi per oliare la catena, altri pochi km ed arrivo ad Omiya, ed ecco che mi si para davanti lo stabilimento principale Arai, quello dove il padre di Mr Arai cominciò la sua attività.
Arai-san all’inizio era produttore di elmetti per soldati, e la sua prima innovazione fu quella di isolare termicamente l’elmetto per conferirgli un migliore confort.
Da lì in poi la passione e l’ingegno lo portarono a realizzare il primo casco in fibra di vetro mai prodotto in Giappone.
E da allora molto è cambiato, ma non troppo: il loro concetto primario è sempre uno, la sicurezza.
Ed è quando Mr Arai ha pronunciato queste parole che ho capito quanto avessero a cuore questa faccenda.
“We don’t look for standards, we look for safety. That is very different.”
Con Akihito, che preferisce essere chiamato semplicemente Aki, cominciamo il tour dell’azienda: passiamo prima dalla hall of fame, dove si trovano i caschi di campionissimi di Formula 1, MotoGP, SuperBike etc.
Ci spostiamo brevemente nella sala test, dove un “Astro” sta per vedere la sua fine schiantato contro un bersaglio metallico.
La botta è forte: i test Snell ECE prevedono la caduta libera da 3m circa, che qui è ripetuta 2 volte.
Il limite massimo consentito assume un valore di 300 (non conosco l’unità di misura) ed il test effettuato senza casco precedentemente mostrava una statistica ben al di sopra, circa 700, mentre con il casco indosso siamo entro i 180; questo dimostra quanto sia fondamentale indossare un casco.
Non contenti, i tecnici Arai mi hanno voluto mostrare una vera e propria chicca: l’Astro è un casco da moto, ma loro lo sottoporranno ad un test da Formula 1, ben più severo, con una caduta libera da un’altezza di 5m.
216.
Incredibile, in Formula 1 si potrebbe correre regolarmente con un casco da moto omologato per strada!
La filosofia Arai impone che tutti i caschi, dal più economico al più costoso, abbiano lo stesso standard di sicurezza, quello che fa variare il prezzo sono i materiali utilizzati, la sicurezza rimane però la medesima: l’Astro è un casco di fascia non top, eppure supera più che abbondantemente i test.
E lo stesso casco che indossa Dani Pedrosa è quello che indossi tu, niente differenze.
Passiamo alla prova di perforazione, necessaria perché quando cadi potresti sbattere la testa su un oggetto appuntito.
Un percussore dalla punta acuminata è lasciato cadere da 3m.
Prova superata anche in questo caso, i macchinari mostrano che non è stato raggiunto il punto critico dove il percussore avrebbe colpito l’eventuale testa all’interno.
E qui la prova sulla pista, il casco di un pilota del campionato giapponese che urtando contro un’altra moto ha avuto la possibilità di salvare la propria testa.
Passiamo al fabbricato successivo, dove Aki mi mostra le fasi di lavorazione, queste purtroppo non è stato possibile fotografarle.
Dei macchinari aspirano frammenti di lana di vetro su una sagoma tridimensionale che avrà la forma del casco finale, una volta formato questo viene passato alla resinatura, non viene usata molta resina perché altrimenti perderebbe di elasticità ed acquisterebbe troppo peso.
Vengono aggiunti strati successivi di fibra e kevlar, credo, non mi viene svelato niente di più a riguardo.
Si passa poi al controllo severo dello spessore.
Se il casco ha lo spessore giusto viene impilato per essere portato alla fase di lavorazione successiva.
Se invece non rispetta lo standard, fa questa fine.
Nel container noto anche dei sacchi con un materiale che pare differente, Aki non si esprime su questo e dice che è un materiale prototipo in fase di sperimentazione.
Troviamo anche la sagoma del mio casco, il Tour-X4, dai bordi scuri perché tagliati al laser; un taglio all’acqua non sarebbe conveniente perché lascerebbe la superficie di taglio frastagliata con possibili fratture future.
Fine del tour della mattina, andiamo al ristorante giapponese e gustiamo l’ottimo piatto del giorno composto da salmone, riso, zuppa di miso, tsukemono e tempura.
Ci spostiamo nell’area verniciatura e stuccatura, un settore delicatissimo, perché in fondo la vernice ha maggiormente funzione estetica e ne deve essere usato un quantitativo minimo per dare anche la giusta protezione alla resina dal fattore solare.
Non entriamo però, se non prima di essersi tolti scarpe e stivali ed aver indossato le speciali ciabatte Arai!!!
I caschi sono arrivati qui dal precedente fabbricato, sistemati in fila pronti ad essere verniciati.
Abili maestranze ripetono un gesto fluido e mnemonico passando uno strato di vernice sottile e omogeneo.
Alcuni addetti rimuovono con cura i pinhole (“forellini” nella vernice dati dalla presenza di polvere o sostanze oleose) ed altri si occupano della stuccatura.
La vernice è sempre troppa, fa peso, quello che non serve si toglie, conferendo al casco un aspetto ancora più omogeneo ed una superficie liscia come la pelle di un bambino.
Settore Decal: una schiera di ragazze, che si sa, hanno le mani d’oro e sono più precise per questi lavori, si dedicano alla decorazione dei caschi tramite l’apposizione di decalcomanie sottilissime e molto delicate.
Vorrei provare anche io, ma è meglio se lascio fare, mi accontento di una foto.
Mi concedono di togliere la pellicola che protegge le decalcomanie…è anche troppo, non vorrei rischiare di rovinare un casco così prestigioso!
Passaggi finali, siamo adesso alla personalizzazione con accessori immancabili quali guarnizioni, incollate a freddo, ed inserimento della calotta interna in espanso a 5 diverse densità (si, 5 densità diverse per ogni parte della testa, che assorbono il colpo in modo studiato).
Infine, l’apposizione del cinturino, un’operazione di fondamentale importanza: ricordate l’incidente occorso a Simoncelli? In quell’occasione cedette l’aggancio del cinturino al guscio esterno in fibra del casco, perciò lo perse durante l’incidente.
Ed è proprio per questo motivo che questa delicatissima operazione è consentita soltanto a 3 operai muniti di licenza apposta sulla parete. Loro 3 e nessun altro.
Finitura: inserimento di visiera, placche, viti.
E preparazione alla spedizione: per il mercato interno Arai vende direttamente ai concessionari, per il mercato oltreoceano si affida a dei distributori, uno dei quali è la BER di Modena.
Io ho anche provato a portare via “qualche” casco…per un valore forse di 30.000€!!!
Fine del tour.
Ho visto qui all’Arai rasentare la perfezione, come solo i giapponesi sanno fare, controllo multipli ed incrociati da parte di persone diverse ed addirittura in luoghi diversi, per realizzare un casco che è al top a livello mondiale.
Un’altra grande soddisfazione? Mettere la mia firma accanto a quella di Aldo Drudi, sulla Wall Arai.
Il saluto all'Ambasciatore.
E’ l’ora.
Arrivato a Tokyo da un paio di giorni, comincia (o continua?) la mia serie di appuntamenti più o meno istituzionali.
Oggi, grazie all’impegno di Guido, incontrerò l’ambasciatore italiano a Tokyo Domenico Giorgi.
Ma prima mi incontro con il giornalista de “Il Sole 24 Ore” Stefano Carrer, con il quale realizziamo un’interessante e simpatica intervista.
Ci troviamo davanti all’Hotel Ana InterContinental; mi sento un po’ impacciato e fuori luogo dinanzi al lusso dell’albergo e delle persone che lo frequentano.
Sono molto onorato. La mia intervista comparirà in prima pagina sul sito del Sole.
La trovate qui: INTERVISTA – VIDEO
Subito dopo ci dirigiamo verso l’Ambasciata, a Minato-ku (per intendersi vicino alla Tokyo Tower), dove mi aspetta anche Antonio Fatiguso, giornalista ANSA, per realizzare un’altra video-intervista: mi sento quasi un V.I.P.!
Sono le 17 in punto, il cancello dell’ambasciata si apre ed il carabiniere in divisa mi fa cenno di entrare.
L’ambasciatore è già lì ad aspettarmi.
La conversazione è piacevole ed a tratti pure scherzosa, l’ambasciatore sembra una persona alla mano nonostante il ruolo che ricopre.
E’ un piacere stare qui, in questa isola di italianità all’interno di una megalopoli dall’altra parte del mondo, è come sentirsi protetti, a casa.
C’è tempo per le foto di rito e per un caffè all’interno.
Prima di salutarci, l’Ambasciatore vuole esprimere la sua vicinanza e si mette a disposizione per qualsiasi evenienza: lo so, saranno pure parole di rito, ma pronunciate di persona da una tale figura fanno sempre un certo effetto, e sono sicuro che se davvero avessi bisogno, qui sarei certamente aiutato.
Un’ultimo sguardo alla scrivania, mentre me ne vado con un pizzico d’orgoglio ed un bel sorriso stampato sotto al casco.
Grazie Ambasciatore Giorgi!
Watashi wa Tokyo ni imasu!
La mia avventura alla Yamaha è durata una mattinata, molto intensa, vissuta appieno, ma adesso devo guardare oltre, verso l’ambita tappa di un viaggio che è più di una semplice strada. Prendo il by-pass, statale n° 1, che rapidamente mi conduce fino ai piedi del Fuji: è sempre uno spettacolo vederselo lì, spuntare dal niente, in mezzo alla pianura stagliarsi con i suoi 3600m, in una figura perfetta, conica, senza sbavature, quasi fosse stato modellato dall’uomo.
L’atmosfera del crepuscolo poi, che ne illumina solo la vetta, la bocca del vulcano inattivo, lo rende ancora più affascinante e divino.
Su consiglio di un tenerista giapponese di quelli incontrati ad Iwata, Masahito, mi dirigo verso il lago Saiko, alle pendici del Fuji sul suo lato occidentale.
Arrivo a sera tarda ma non rimpiango certo la scelta: costa 1000Yen dormire qui, non è male, anche se purtroppo non hanno la doccia.
Questa è la mia ultima notte di viaggio, e come concluderlo meglio se non in tenda. Ogni volta che entro nella mia Quechua verde mi sento come a casa, chiudo la veranda e la sensazione di calore aumenta. Esco per cena, mi preparo due buste di thai noodles ai gamberi che ancora conservo dall’Italia.
Sono stanco, non vedo l’ora di dormire. I pensieri cominciano ad accavallarsi. Impossibile spiegare come ci si senta al termine di un viaggio durato oltre tre mesi e mezzo, dopo 21.000km, disavventure che adesso ricordo con un sorriso, avventure che adesso ricordo con un velo di nostalgia. Le persone incontrate, eccole che mi appaiono in fila, le loro facce davanti ai miei occhi, i paesaggi che ancora mi fanno girare la testa, ed una sensazione di malinconia senza fine, adesso che sì, ho realizzato quello che da tre anni sognavo. Sembra ieri che sono partito. Sembra di aver vissuto una vita intera, allo stesso tempo.
Mattina. Il mio the al lampone è pronto, e la torta acquistata ieri al 7-11 mi attende, invitante, sul tavolo in legno del campeggio.
Rifletto ancora, la notte sembra abbia portato consiglio. La mia missione non è ancora finita. Adesso devo arrivare a Tokyo, prendere le chiavi della casa condivisa, vivere lì almeno uno o due mesi. Una grande scommessa, chissà cosa mi riserverà il futuro: sarò in grado di sopportare la pressione di una città così popolosa, di riuscire a mantenermi? Quel che sarà sarà, non è importante, l’importante è sapere di averci provato.
Prima di Tokyo mi aspetta il Fuji, non posso andarmene senza averlo scalato, almeno in moto! Giro l’angolo della strada e mi appare incappucciato, con un cappello di nuvole a tappargli la “bocca”.
Prendo il Subashiri Trail, l’inizio non è male, tra gli alberi che cominciano a cambiare colore, un asfalto perfetto e l’attesa delle curve e tornanti dietro l’angolo.
La moto, salendo, fatica un po’, già all’altezza del mare la sentivo un po’ fiacca e molto fuori carburazione salendo oltre i 5000rpm, adesso che salgo in montagna le manca proprio il respiro.
Arrivo alla stazione dei 2000m, mi faccio un breve giro di una mezzoretta per arrivare a delle cascate adesso inattive. Il paesaggio ha molta vegetazione, che lo fa assomigliare ad una montagna, ma che inevitabilmente il basalto e la roccia nera che costituisce il terreno ricorda che altro non è che un vulcano inattivo…beh, spero che lo sia, inattivo!
Purtroppo il meteo inclemente ha portato nuvole quassù e non riesco a vedere la vetta, né la pianura sottostante.
Mi porto a casa il mio souvenir, non compro mai stupidaggini alle bancarelle, questi tre sassetti saranno il mio ricordo del Fuji.
E’ ora di pranzo, mentre che attendo speranzosamente che le nuvole se ne vadano, e consumo l’ultima riserva di cibo russo: mais al vapore e polpette di pesce. Mi ricordo che andavo matto per queste polpette, adesso non riesco a immaginare come diamine potessero piacermi, ero proprio messo male in Russia!
Devo ripartire, la situazione dopo un paio d’ore non cambia.
Ci sono, di nuovo. Tokyo. La città più grande del mondo, la più popolata al mondo con i suoi 37 (trentasette) milioni di abitanti. Una cosa immensa.
Sono quasi impaurito da questa città di proporzioni abnormi, ma mi basta ascoltare un attimo il borbottare dell’ottoemezzo che ogni paura scompare.
Non faccio a tempo a sistemarmi nella mia nuova abitazione che già è tempo dei saluti. Dopo essere stato calorosamente accolto dal fiesolano Guido nella sua abitazione di Meguro, dove ho passato la prima notte, si fa vivo Henry, un ragazzone di Mercatale V.no (frazione di Montevarchi) che lavora qui all’ambasciata, nell’ufficio militare, da ormai un anno. Vado a trovarlo!
Simpaticissimo ed alla mano, amico di amici, mi presenta poi anche il Col. Gasperini, una persona tutta d’un pezzo che mi augura il meglio e si mette a disposizione per qualsiasi evenienza.
Torno a casa, è la sera del mio primo giorno a Tokyo, già mi rendo conto delle sue dimensioni spropositate, solo per arrivare in ambasciata ho fatto 6km a piedi, ma ne è valsa la pena, mentre passeggio mi si apre la vista sulla Tokyo Tower, suggestiva di notte molto più che di giorno.
Tokyo di notte è meravigliosa.
Tra grandi sbalzi d’umore giornalieri, spero di consumare una fetta importante di tempo ed emozioni in questa città dalle mille risorse.
Intanto sarò qui fino a novembre, poi vedremo…
Bentornata a casa.
28 Settembre, devo salutare le Manjushaka per partire la mattina verso le 9, direzione Iwata.
Queste ragazze sono una forza, piene di energia!!!
Passo anche a salutare il simpatico benzinaio che aveva chiamato Nozomi la prima sera, per farmi venire a prendere al suo distributore, dato che non trovavo la loro abitazione.
Faccio il pieno e parto.
La prima grande città è, ovviamente…Tokyo!
E’ di nuovo una forte emozione vederne i grattacieli sbucare da dietro la collina, mi commuovo come già mi era capitato nella traversata da Sakhalin ad Hokkaido, mentre vedo la Tokyo Tower svettare col suo bianco/rosso in mezzo agli edifici.
Dopo essere uscito da Tokyo, caotica in periferia ma scorrevole in centro, e dopo aver rischiato una multa per aver sorpassato la linea continua gialla (per avanzare la coda ad un semaforo), mi fermo in quello che sembra un posto tranquillo e più arieggiato per fare il mio pranzo..ho i minuti contati, sono già in ritardo, e menomale che le Manjushaka mi avevano preparato un delizioso bento!
Sono ormai vicino ad Iwata, la sera e il buio si approssimano.
Ho dovuto percorrere una 50ina di km in autostrada, spendendo i miei bei 1500Yen, azz..davvero un sacco, di nuovo, circa 12€!
Ma altrimenti avrei ritardato davvero troppo, e con i giapponesi, si sa, è meglio essere puntuali!
I pochi km che mi separano da Iwata mi riservano una bella sorpresa, vedo tanti bei campi con dei cespugli perfetti, che mi chiedo cosa siano: alla fine scopro che sono coltivazioni del famoso Ocha, il the verde giapponese.
Arrivo al concessionario Yamaha YSP, dove Kasai, che lavora in Yamaha Motor Japan, mi stava aspettando da una ventina di minuti.
Salutiamo il proprietario ed andiamo a casa sua, dove passerò la notte…sono emozionato, mi sento già parte della famiglia Yamaha!
E il bello è che parla anche italiano!
Kasai ha lavorato diversi anni a Milano, ma da oramai 20 anni è di nuovo in Giappone, nonostante questo ricorda molto bene l’italiano, ed anche sua moglie riesce a parlare qualche parola.
Per cena c’è un lautissimo pasto a base di sashimi, insalata, riso, carne e chi più ne ha più ne metta…ed addirittura c’è la dedica negli hashi!
Non è finita, credevo di godere già abbastanza, poi Kasai accende la tv e scopro che si corre la MotoGP, adesso!! E’ la prima volta che vedo un gran premio durante il viaggio, sono gasato!
Kasai gufa tutto il tempo perché gli hondisti in testa cadano, così accade e lui balza in piedi per festeggiare la vittoria di Lorenzo, fotografandone l’arrivo al traguardo addirittura!
Colazione: chi è stato in Italia sa cosa piace agli italiani, e così ecco delle fantastiche brioches con latte e frutta!
Saluto la casetta e la mia stanza sul tatami sperando di tornare a far visita qui.
Adesso è tempo di…Yamaha!
Appena dai palazzi appare l’enorme scritta Yamaha sopra al palazzo degli uffici strabuzzo gli occhi e prendo un gran respiro, emozionato!
Kasai mi dà l’ok per l’ingresso al Communication Plaza, varco il cancello, svolto a destra e…WOW…non posso crederci..
Un’accoglienza calorosissima e inaspettata…non ho parole, veramente, arrivare qui da Montevarchi, dopo 21.000km e 3 mesi e mezzo di viaggio, ed essere accolti ufficialmente da tutto il Communication Plaza Yamaha, è davvero qualcosa di unico!
Non posso non allegarvi anche la sequenza video…aguzzate le orecchie, il “WOW” che ho scritto poco sopra l’ho anche esclamato da dentro il casco appena avvistata la folla!
La folla si riversa attorno alla moto per osservarla da ogni angolazione.
E noto con piacere che anche alcuni amici del Club Ténéré Giapponese sono presenti, alcuni arrivano addirittura da Tokyo, è un’enorme soddisfazione vederseli qui ad aspettarmi!
La rigida “schedule” programmata dal team Yamaha prevede anche alcune pause, approfitto per visitare il Museo, a partire da alcune leggende.
Le mie colorazioni…la vecchia sulla destra e l’attuale sulla sinistra.
Yamaha ha anche progettato motori da auto per Toyota, e la divisione musicale ha progettato gli interni della sportiva Lexus in modo che il sound del motore avvolgesse il pilota in una potente sinfonia.
Dopo aver visionato un power point ed un film a proposito della storia Yamaha con Masuzaki san, è l’ora di spostarsi presso la fabbrica, e qui c’è un’altra sorpresa: sul portone di ingresso c’è affisso un cartellone plastificato di benvenuto con su il mio nome!
Gli amici teneristi mi salutano, alcuni li rivedrò a Tokyo, altri tornano ad Hamamatsu.
E’ l’ora del “business” lunch al Caffè del Communication Plaza, torna anche Kasai e c’è il suo boss (sulla sinistra).
Intratteniamo una piacevole conversazione e ricevo apprezzamenti sulla moto, sono molto gratificato.
Per l’occasione in Yamaha avevano anche issato la bandiera italiana, un grande onore!
Kasai, gentilissimo, si offre di accompagnarmi ad un tempio shintoista qua vicino.
E’ bello e ben conservato, sembra sia originale e non ricostruito.
Ci salutiamo infine, con la promessa di rivedersi, io gli butto là scherzosamente di vedersi a Motegi se mi troverà un pass, vedremo!
Grazie Yamaha, Grazie Kasai!
Ad un passo da Tokyo!
Quanto tempo!
Ci siamo lasciati al ristorante di Shimura san, ero appena arrivato.
E adesso? Adesso sono ad un passo da Tokyo, è lì dietro l’angolo che sembra chiamarmi, ma ancora non è tempo.
Torniamo indietro di un poco.
Il ristorante italiano di Mrs Shimura si presenta bene, non in stile perfettamente italiano ma ci si avvicina, l’anziana (ma attivissima) 76enne ha una vera e propria passione per la cucina e per l’Italia.
I prezzi non sono esageratamente alti, con circa 25€ si mangia un primo ed un secondo.
Shimura san è sola, e durante la settimana manda avanti il ristorante solo con le sue forze, mentre il fine settimana il figlio che abita a Kamakura (poco sotto Tokyo) accorre ad aiutarla.
Per ovviare ai momenti di solitudine c’è un bel gattone, Gine-chan, un cincillà.
Shimura san è molto attenta, e cerca di ricalcare al massimo le ricette italiane, preparando la mattina stessa quello che servirà a pranzo: ingredienti sempre freschi e genuini, quasi tutti provenienti dal suo orto!
Il giorno per pranzo mi fa trovare in tavola questo bel piattone…e cosa potrei chiedere di più, ho divorato questi spaghetti al pomodoro chiudendo gli occhi ed immaginandomi in Italia…ahhh, il Bel Paese!
I clienti sono affezionati alla signora, ed ogni volta che Shimura san serve qualche pietanza le esclamazioni di stupore non finiscono mai: sugoi!!!
I giapponesi sono esaltati dall’Italia e dagli italiani, tant’è che quando un gruppo di commensali ha saputo della mia presenza al ristorante ha voluto vedermi in sala (ed io ero a lavorare nel campo, bello sudicio!); al mio ingresso non mi hanno fatto l’applauso ma ci sono andati vicini, me lo hanno fatto poi quando ho provato a dire un paio di parole in giapponese.
Infine, quando ho detto che venivo da Firenze stavano per svenire e il “sugoi” pronunciato da ognuno di loro all’unisono sembrava non finire mai.
Mi sono gasato.
Il giovedì, come promesso, siamo andati ad Aizu Wakamatsu, approfittando dell’uscita per andare a fare la spesa per il ristorante.
Per la strada si incontrano tantissimi campi di riso.
Shimura san guida la sua Volkswagen New Beetle con guida a sinistra (si, la guida a destra non le piace!) fin sotto lo Tsuruga-jo.
Lo Tsuruga-jo è il castello di Wakamatsu, la principale attrazione della città, e si trova all’interno di un’isoletta fortificata circondata da un fossato.
Ecco che la sua sagoma compare stagliandosi tra le fronde degli alberi che gli fanno da contorno.
Wakamatsu è una città samurai, e così Shimura san insiste per farmi fare una foto insieme ai finti samurai che campeggiano sotto al castello…insomma, un po’ come farsi la foto coi centurioni romani al Colosseo, solo che qui non si paga!
Il castello è stato completamente ricostruito, da 0, sulla base della foto di un francese che era riuscito a cogliere lo stato del castello poco prima della sua demolizione, negli anni ’20 se non sbaglio.
La sua forma attuale si deve ad un progetto del ‘500.
Dall’alto si può ammirare il panorama retrostante la città. La natura abbonda sempre, appena fuori dai limiti cittadini.
Il parco sottostante è carinissimo e tenuto perfettamente, anche qui gli operai sono di continuo al lavoro, senza sosta, per mantenerlo splendente.
Molte gite sono presenti in visita al castello (a dire il vero ho visto tante gite ovunque, in Giappone, sembra che gli studenti possano godere della loro vita scolastica) ed è sempre curioso osservare come tutti siano vestiti alla stessa maniera, in uniforme, senz’altro sono disciplinatissimi!
Salutiamo il castello.
E’ ora di pranzo.
Shimura san propone un ramen, io preferisco il katsudon, Tonkatsu posato su una ciotola di riso…godurioso…assaggio anche l’aizu ramen ordinato da Shimura san.
Torniamo al ristorante. E’ curioso come la signora Shimura usi dei guanti in pelle rossa per guidare, mi ricorda certi autisti di limousine!
Fino ad adesso mi sono “riposato”, pur svolgendo qualche piccola mansione, adesso è l’ora di ripagare per bene l’accoglienza della signora, che non si vergogna certo a chiedermi di tagliare la legna…ne avrò spaccato qualche quintale!
Al termine del lavoro pomeridiano, Shimura san mi rende i panni lavati in lavatrice e…porca miseria, mi ero dimenticato dentro la busta con i dollari!!! Adesso dovrò asciugarli tutti per bene!
Venerdì – arriva anche suo figlio Ko, lo specialista della pizza e del pane, che purtroppo non ho avuto modo di assaggiare: sarà per la prossima volta!.
A cena si mangia sempre giapponese: Karee raisu (riso al curry), ottimo!!!
La mattina del sabato è l’ultima per le caprette qui al ristorante, oggi se ne vanno a Koriyama (anche mia prossima destinazione) per trascorrere un inverno meno rigido (qui siamo a circa 900m e fa fresco già ora).
Domani sarà anche il mio ultimo giorno, la signora Shimura si sentirà più sola tutto insieme!
Vicino alla capanna dove stanno le caprette c’è un albero con dei frutti che sembrano ciliegie, ma mi avvicinano e questi sono fatti di tante forme poligonali: mi ricordano certi frutti che da piccolo potevo trovare all’interno del giochino dei pokemon, credevo fossero inventati e invece…!!!
AROMA TERASU ovvero Aroma Terrace, un angolo di Toscana, e di Italia, nel cuore del Giappone.
Dopo una settimana passata velocissimamente è già l’ora di salutare Shimura san e suo figlio: lei insiste perché torni, io scherzando le dico che in effetti c’è ancora da finire di tagliare la legna e lei scoppia a ridere annuendo!
Poco sotto il ristorante si trova il lago Hibara.
Un bello scorcio sul monte Bandai, dalla doppia vetta.
Pochi km oggi, circa 80; il GPS comincia a dare problemi, sceglie sempre strade lunghissime facendomi fare anche il 30% di km in più, non capisco perché, e così devo optare spesso per una navigazione a vista, nonostante questo sono finito in mezzo ai campi per arrivare dalla signora Watanabe, che mi accoglie calorosamente a Koriyama.
La prima sera andiamo al “World buffet” dove si mangiano cibi da tutto il mondo, all you can eat in 90 minuti al massimo: non ho foto, meglio così, perché non potete immaginare quanto abbiamo mangiato tra tutti!!!
Il giorno seguente è festa in Giappone, ed approfittiamo per fare una gita di “famiglia” verso la montagna, dove si trova un buon ristorantino che fa ricette a base di funghi e una spa (onsen) con acqua sulfurea molto benefica per la pelle.
Chizuru ci guida verso la periferia, anche lei indossa guanti in auto!
Guida bene, Watanabe san poi mi spiega che lavora nella ditta del padre Yuichi san come guidatrice di camion…apperò!!
Fuori dal ristorante compriamo un po’ di frutta, poi la signora Watanabe mi propone questa scatola…non capisco bene, poi aguzzo la vista e…riuscite a capire cosa sono??
Non vi sbagliate se pensate che siano cavallette (o grilli, chissà) e sono pure caramellate; a Chizuru non piacciono, troppo dolci, ed anche io decido di rimandare questo momento di follia gastronomica posando la scatola sul banco.
Vicino all’onsen c’è un bel giardinetto, ovunque sono ben curati e gli alberi hanno sempre una forma che sceglie il suo giardiniere, sembrano bonsai giganti.
La sera torniamo in città, nel centro di Koriyama, pieno di luci e molto suggestivo.
Ristorantini minuscoli si affacciano sulla strada.
Noi andiamo al Mikado, ristorante cino-giapponese, e condividiamo una gustosa cena a base di yaki soba, gamberi in salsa, katsu raisu..
Colazione! Ricchissima colazione, come sempre qua in Giappone, sembra che la mattina si consumi il pasto principale qua.
Adesso devo salutare una delle signore più calorose e simpatiche che abbia conosciuto in Giappone, ogni parola era una battuta su cui ridere, pur non capendo un accidente di giapponese il suo temperamento mi ha sempre messo di buonumore: grazie Watanabe san!
E grazie anche ad Akiko, sua amica che ha voluto regalarmi delle barrette-snack e la foto che ci siamo fatti insieme il giorno prima a casa sua.
Questa era la mia stanzetta su tatami.
I tre cagnolini che ci hanno tenuto compagnia per questi giorni.
E il box attrezzi a cui ho riparato la serratura e poi riverniciato come segno di riconoscimento verso tanta accoglienza per la signora Watanabe!
Prima di andare via, Chizuru apre il suo box e…sorpresa!
Dentro ci sono tre moto, di cui due sopra i 1000cc, la sua preferita è la Yamaha XJR 1300cc viola sulla destra…wow, che grande!!
Mi regala anche una foto accanto al suo gioiello, spettacolare, lei sembra uscita da un cartone giapponese!
Quasi tutti i giapponesi che ho conosciuto mi hanno regalato delle foto stampate, molto apprezzabile! Ho scoperto poi che le foto si stampano in modo semplicissimo al 7-11 e per pochi cent, così anche io ho stampato alcune foto e le ho spedite per posta alla signora Watanabe.
A presto Watanabe san!
Oggi mi aspettano poco più di 250km, con tappa intermedia ad Hitachi, al Seaside Park, bellissimo in certe stagioni, un po’ meno adesso che non ci sono fioriture e manca ancora qualche giorno alla stagione del rosso autunnale, peccato!
Ci tornerò magari..
Questa è la famosa collina che in primavera si tinge di azzurro.
Da un poster scopro che proprio tra qualche giorno, verso i primi di ottobre, questo sarà l’aspetto della collina.
Cavoli, che sfortuna! Ho provato a rielaborare su photoshop la prima foto, e se il poster non è troppo artefatto la collina dovrebbe presentarsi così.
Beh, spero di poter ammirare comunque questi colori in qualche parco di Tokyo.
Intanto mi godo la fine della camminata, notando come il parco sia ben tenuto e perfettamente adeguato ad una gita di un giorno intero.
Adesso, una carrellata di foto del parco.
All’interno si possono anche osservare due case in stile tradizionale, con ogni spiegazione di sorta per quanto riguarda materiali, tecnica costruttiva etc. etc.
Infine, in tarda serata, dopo aver preso tanta acqua (il braccio di un tifone è proprio adesso di passaggio nell’Honshu) arrivo a Joso, ad un passo da Tokyo, presso la base delle danzatrici giapponesi Manjushaka, e mi fanno trovare in tavola questo ben di dio!
La mia stanza: niente male!
Anche l’esterno non è poi così brutto, che dite?
10 donne vivono qui, un grande gruppo che mettendo insieme le proprie forze riesce a fare grandi cose!
Il fine delle Manjushaka è quello di portare un sorriso là dove le condizioni economiche, sociali e politiche non sono le migliori, tutto questo per beneficenza.
Anche qui per guadagnarmi pasti e posto letto ho lavorato un po’, ma stavolta sono salito di livello, da oggi posso usare anche la motosega!!!
Beh dai, ne vale la pena quando si mangia così bene!
Ci vediamo…alla YAMAHA!!!
Lunedì 29 settembre sarò ospite d’onore alla Yamaha ad Iwata, con ricevimento ufficiale, sessione fotografica, visita al museo, pranzo…sono emozionato!!!
SPECIALE - Il Terremoto, 3 anni dopo.
Il terremoto di Sendai e del Tōhoku del 2011 (東北地方太平洋沖地震 Tōhoku chihō taiheiyō-oki jishin, Terremoto in alto mare della regione di Tōhoku e dell’Oceano Pacifico) si verificò l’11 marzo 2011 al largo della costa della regione di Tōhoku, nel Giappone settentrionale, alle ore 14:46 locali alla profondità di 30 chilometri.
Il sisma, di magnitudo 9,0 (secondo l’USGS), con epicentro in mare e con successivo tsunami, è a tutt’oggi il più potente mai misurato in Giappone e il settimo a livello mondiale.
I terribili accadimenti dell’11 marzo mi scossero non poco, vedere un paese così avanzato impotente di fronte alla violenza degli eventi naturali è stato come capire che possiamo essere moderni quanto vogliamo, ma alla natura basterà sempre un momento per spazzarci via.
L’occasione per approfondire ogni aspetto legato al post-disastro è proprio questo viaggio, dove con la libertà delle due ruote, e grazie ai contatti LAILAC potrò scoprire ogni landa per sondare il terreno 3 anni e mezzo dopo.
Il terremoto, il più grave mai registrato in Giappone, in sé non ha provocato la maggior parte dei danni materiali ed umani.
In seguito alla scossa si è generato uno tsunami con onde alte oltre 10 metri che hanno raggiunto una velocità di circa 750 km/h.
Le coste giapponesi più colpite dalle onde anomale sono state quella della prefettura di Iwate, dove si è registrata l’onda più alta, abbattutasi nelle vicinanze della città di Miyako, che ha raggiunto la straordinaria altezza di 40,5 metri, e quella della prefettura di Miyagi, che ha subito i maggiori danni, con automobili, edifici, navi e treni travolti dalle onde.
L’arrivo al mare, avvenuto nei pressi di Ofunato, è di per sé sconvolgente: mi trovo di fronte a delle gigantesche barriere fatte di riporti di terra, saranno alte almeno 10m, e si estendono per migliaia di metri quadrati.
Le strutture per il movimento terra si estendono per centinaia di metri in un’intricata rete di tunnel, addirittura c’è un ponte strallato che dalla collina porta terra oltre un braccio di mare che si insinua nell’entroterra.
Per approfondimento, qui avete la possibilità di vedere con i miei occhi l’impatto con la costa.
La zona costiera è un saliscendi continuo, e continuamente è possibile notare cartelli che denotano l’inizio e la fine della sezione inondata dallo Tsunami.
La giornata grigia accompagna il clima di raccoglimento che induce involontariamente la vista di questa distruzione.
E’ impressionante osservare come in altura le case siano perfette e pochi metri più in basso ci sia il deserto, tutto spazzato via dall’onda anomala.
Ogni tanto incontro delle deviazioni stradali, il GPS non sa più come ricalcolare la strada, mi trovo in mezzo al niente secondo la cartografia del Garmin; molte strade di servizio sono appena state realizzate per sopperire a quelle che adesso…non esistono più!
Parte della viabilità è stata inghiottita dal mare, così come parte della rete ferroviaria, interrotta a tratti.
E così capita di imbattersi in strade senza sfondo, che terminano in una voragine o nel mare.
I paesaggi che si susseguono mettono i brividi, intere colline sbancate, spogliate da ogni cosa, e poi mutilate per costruire barriere e plasmare di nuovo la costa, scomparsa dopo il ritiro dell’onda.
Dove c’erano ponti, adesso c’è il mare…
Banchine in cemento armato, strutture in metallo, un groviglio di materiali contorti in posizioni che ricordano uno strazio, quasi un grido di dolore.
E prefabbricati sbattuti lontano da dove erano situati in precedenza, in posizioni innaturali.
Mentre sfreccio sull’asfalto umido, sotto qualche lacrima di pioggia, sulla destra scorgo strutture temporanee sistemate in ordine preciso dietro ad una rete metallica: sono le case degli sfollati, che passeranno almeno un’altro freddo inverno dentro a queste costruzioni precarie.
Non ho mai visto un dispiegamento di mezzi tanto grande, solo nella giornata di oggi avrò visto centinaia tra bulldozer, escavatori, sistemi di trasporto e movimento terra. I giapponesi, quando fanno, fanno sul serio.
Arrivo a Minamisouma.
Qui ho uno degli appuntamenti più importanti in Giappone, una sosta conoscitiva per aggiornare le conoscenze a proposito dei danni da radiazione nucleare.
Minamisouma è infatti il comune abitabile più vicino alla centrale nucleare Fukushima Dai-ichi, i cui reattori 1, 2, 3 e 4 sono collassati a poca distanza dai terribili avvenimenti precedenti, quasi a voler infierire come non fosse abbastanza, come una “terza piaga” su un territorio già pesantemente colpito.
I reattori attivi a Fukushima I erano i n. 1, 2 e 3, mentre altri tre erano stati spenti per manutenzione.
Questi si sono disattivati automaticamente dopo la scossa, ma i sistemi di raffreddamento sono comunque risultati danneggiati, causando un surriscaldamento incontrollato. Il livello dell’acqua negli impianti è sceso sotto i livelli minimi di guardia in tutti e due i siti, e pertanto è stata dichiarata l’emergenza nucleare (la prima nella storia del Giappone).
Alle 15:40 (6:40 UTC) dell’11 marzo il reattore n. 1 di Fukushima I ha subito la fusione delle barre di combustibile e un’esplosione visibile anche dall’esterno, che ha provocato il crollo di parte delle strutture esterne della centrale.
In un’ora sarebbero state rilasciate più radiazioni che nell’arco di un anno.
Il 12 marzo si è verificato lo stesso problema al reattore n. 3 della stessa centrale.
Per contenere il surriscaldamento è stato autorizzato il rilascio controllato di vapore e si è proceduto all’irrorazione dei reattori con acqua di mare e acido borico (capace di assorbire neutroni e rallentare la reazione del combustibile).
I gas dispersi dalle esplosioni e dal rilascio di vapore hanno diffuso nell’atmosfera ioni radioattivi di iodio 131.
La successiva evacuazione ha interessato 110 000 persone nel raggio di 30 chilometri dall’impianto di Fukushima I.
Il 14 marzo si è interrotto l’impianto di raffreddamento del reattore n. 2, subito irrorato con acqua marina e boro.
Nella notte del 15 marzo è avvenuta un’esplosione, con successivo incendio, al reattore n. 4: anche se spento, il guasto all’impianto di raffreddamento ha impedito di contenere il surriscaldamento dovuto al decadimento naturale del combustibile nucleare, e questo ha portato alla vaporizzazione dell’acqua della piscina di soppressione in cui è immerso il reattore e alla successiva reazione tra vapore bollente e lo zirconio che riveste le barre di combustibile; l’acqua attorno al reattore si è prosciugata portando il surriscaldamento fuori controllo.
Gli incendi e la radioattività hanno reso problematico l’accesso negli impianti dei tecnici che cercavano di riprendere il controllo dei reattori.
Tuttavia, i contenitori primari (vessel) dei reattori interessati dagli incidenti (n. 1, 2, 3 e 4) hanno resistito alle esplosioni e al surriscaldamento.
Gli avvenimenti sono stati classificati dall’Agenzia per la sicurezza nucleare e industriale del Giappone al grado 7 della scala INES, il massimo, a pari livello con il Disastro di Černobyl’.
Con Hoshimi san ho per la prima volta occasione di osservare queste zone, entro un raggio compreso tra 10 e 20km dalla centrale.
Cominciamo a girovagare a bordo della sua Prius.
Visitiamo la città di Odaka, a pochi km da Minamisouma.
Non è abitabile: è una città fantasma. Mette un po’ i brividi passeggiare tra le strade di questo paese, tutte le serrande sono chiuse, per strada non c’è niente e nessuno.
Ogni tanto si vede qualche traccia di umanità, qualche fiore ancora mantenuto da chissà chi, qualche persona che torna qui a raccogliere macerie o a tagliare l’erba attorno alla propria casa, vuota, con la speranza che un giorno tornerà abitabile.
Qui si può lavorare ma non vivere.
E nel frattempo, attorno alle abitazioni di chi ha perso la speranza, la natura si riappropria di quello che era suo da sempre.
Edifici pericolanti si moltiplicano, ma la manodopera giapponese è efficiente e molti di essi sono già stati demoliti o messi in sicurezza.
Il paesaggio è quasi da film. Incute irrequietezza.
Fuori dal centro, più che ci si avvicina alla costa e più si vedono edifici collassati o con gravi danni.
Ma la cosa più impressionante è che spesso non si vede niente, solo una distesa verde che una volta era punteggiata da centinaia di edifici. Ogni tanto un cartello ricorda anche quante case sono state spazzate via nella zona.
Case strappate alle loro basi, esili fondazioni sono ciò che rimane di quello che vi era un tempo.
Case in legno perlopiù.
La cosa impressionante è che quelle in cemento armato o muratura invece sono sopravvissute, e spesso costituiscono puntini in mezzo al nulla.
Pali della luce ancora contorti, a ricordarci la direzione presa dall’onda l’11 marzo.
Attività chiuse quello stesso giorno, e mai più riaperte.
Spesso anche in zone abitabili; il personale dopo essere fuggito, dopo aver magari perso la casa, non è più tornato, e molti sono i negozi che non hanno potuto riaprire.
L’interessante gita proposta da Hoshimi si chiude con un grande senso di irrequietezza e con lo stomaco chiuso; adesso che sono da Ohara san non riesco comunque a tranquillizzarmi: non è semplice, quando mi mostra alcuni filmati amatoriali del giorno dello tsunami, trattenere una certa inquietudine, osservando la gigantesca onda che in pochi minuti travolge e distrugge capannoni e case, gli impegni di una vita – qui al porto di Minamisoma l’onda ha raggiunto i 20-30m.
Anche Ohara san si propone di portarmi in giro in zona, stavolta andiamo verso la centrale Dai-ichi, vogliono mostrarmi il punto dove la strada si interrompe, a circa 10km dalla centrale.
I controlli sono strettissimi, solo i più strettamente autorizzati possono passare; lunedì 15 settembre la strada riaprirà ai mezzi, ma non tutti, l’eccezione la fanno le moto, e non capisco perché…la moto è un mezzo più veloce dell’auto, dovrebbe essere più sicuro transitare in moto dato che il tempo di esposizione sarebbe minore.
Non avevo tenuto conto del fatto che la moto è pienamente esposta all’aria, e la polvere radioattiva, ancora presente in quantità nell’aria, potrebbe essere molto dannosa.
Le auto, ad abitacolo sigillato e con l’aria chiusa, potranno passare.
Spuntano dal niente, le cattedrali del deserto.
Riprendiamo il cammino tornando a nord passando per la strada principale.
Ai lati, sia verso ovest che verso est, in direzione del mare, le strade sono tutte sbarrate, con dispositivi più o meno definitivi, ma vedere un guardrail piantato nel cemento e nell’asfalto non fa certo presagire che quella strada riaprirà presto.
Anche qui i controlli sono severissimi, e se non c’è alcun dispositivo di protezione, un poliziotto controlla l’ingresso del traffico, sempre.
Anche stavolta non riusciamo a passare, neanche cercando di spacciarmi per una specie di inviato italiano in missione per un reportage.
Dietro di lui, il nulla, di nuovo, una città fantasma.
Le attività chiuse si moltiplicano, a volte sono intonse, né colpite dallo tsunami né dal terremoto, ma non c’è forza lavoro, e così gli interni appaiono spesso disordinati, oppure completamente vuoti.
Il mare, adesso così calmo, sembra quasi impossibile che questo possa generare una tale forza da spazzare via ogni forma di antropizzazione entro 2 km dalla costa.
Ci fermiamo in mezzo alla pianura, a pochi metri dalla costa: qui viveva la nonna di Ohara san, la sua casetta in legno era in prima fila quando lo tsunami è arrivato.
Adesso?
Solo fitta vegetazione, nient’altro.
Non è inusuale trovare luoghi di raccoglimento lungo le località costiere, piccoli santuari buddisti con lapidi in cui sono incisi i nomi di coloro che sono venuti a mancare.
Molti di essi erano amici di Ohara san.
Solo a Minamisoma sono morte 800 persone.
Lo tsunami se ne è portate via quasi 15.000.
Perché? Perché, chiedo?
Ohara san risponde, con un briciolo di risentimento, che lo tsunami è una cosa a cui sono abituati a far fronte, di solito, dopo ogni terremoto di discreta intensità con epicentro nel mare arriva un’onda di modeste dimensioni.
Anche l’11 marzo doveva essere così, nessun allarme.
Quando però i sismologi e gli oceanografi hanno notato l’anomalia che ha generato onde fino a 40m a velocità pazzesche (fino a 750km/h) il tempo era troppo poco per diramare un allarme tempestivo.
Dal momento dell’allerta all’impatto sulle coste i giapponesi hanno avuto soltanto mezz’ora di tempo per mettersi in salvo.
Questa è la causa di tanti morti.
Ringrazio Ohara san per aver fatto un po’ di luce in più su quelli che per me erano misteri, rendendo più comprensibile capire come un paese così tecnologico e con tutti gli strumenti più avanzati per prevedere situazioni del genere abbia avuto tanta difficoltà.
La mia ultima giornata la passerò in compagnia di Ohara san, che lavora in Ospedale, anche se in ufficio e non nei vari ambulatori; questo è comunque interessante dal punto di vista delle patologie post-radiazione, sicuramente ne saprà qualcosa.
Come già è stato sottolineato poco sopra, durante il raffreddamento con acido borico dei reattori è stato liberato Iodio-131 nell’atmosfera.
Lo Iodio-131 è un grave pericolo a breve termine, dato che ha una emivita di 8 giorni, decadendo in modo beta (90%) e gamma (10%). Si concentra nella tiroide, dove può provocare diversi tipi di tumore e altri disturbi come il morbo di Basedow e tiroiditi autoimmuni. Comunque è un organo asportabile grazie alla chirurgia radicale e alla terapia con il radioiodio.
Chiedo a Ogawa san se ci sono state ripercussioni sulla cittadinanza in seguito ai fatti della centrale, ma con estrema sicurezza mi risponde che no, nessuno è stato ricoverato con alcuna patologia riconducibile alle radiazioni, eccetto ovviamente chi si trovava nelle immediate vicinanze nei momenti critici.
Gli credo sulla parola, i giapponesi difficilmente mentono e sembra molto sicuro del fatto suo.
Durante la nostra “gita” incontriamo uno strumento che ancora non ero riuscito a capire cosa fosse, nonostante lo avessi visto già molte volte.
Si tratta di un rilevatore geiger alimentato da pannello solare: questo segnala 0.353 microSievert/ora, un valore trascurabile.
In un anno, il valore di radiazione assorbita sarà di circa 3 milliSievert, ovvero la stessa quantità assorbita da un italiano.
Questi dispositivi mi rassicurano, si trovano spesso e sono una garanzia per il popolo giapponese.
Ci spostiamo verso la montagna.
Minamisouma dall’alto, la centrale a carbone sullo sfondo.
Proseguiamo il giro, nelle campagne attorno alla città, e qui salta fuori un altro problema, forse il più grave attualmente.
Le ricadute hanno provocato il deposito di polvere radioattiva sul territorio, che viene sistematicamente pulito tramite l’asportazione dello strato superficiale del terreno.
Questo viene poi depositato in sacchettoni neri che si trovano spesso ammassati ai lati della strada, in attesa di essere piazzati da qualche parte: ovviamente nessuno li vuole vicino!
Ogni tanto troviamo qualche sito di stoccaggio, non capisco se sarà temporaneo o definitivo, funziona come una discarica: un telo di plastica viene posto a contatto col terreno, su di questo vengono poggiati i sacchettoni, sigillati con altro telo di plastica e poi coperti con terra.
La precisione dei giapponesi impone di apporre cartelli contenenti notizie a proposito del sito di stoccaggio, che non riesco a capire in toto, ma c’è una dicitura facilmente comprensibile, ovvero quella che riguarda l’esposizione alle radiazioni, che qui è triplicata rispetto alle zone cittadine: 1.12 microSievert/ora.
Se una persona vivesse qui assumerebbe circa 9 milliSievert/anno, equivalenti alla dose di radiazione assorbita durante una scintigrafia.
Non troppo lontano da questi siti si trovano le case temporanee per gli sfollati, è una distesa senza fine a volte, ce ne sono a centinaia.
Alcuni dei residenti potranno avere una casa nuova il prossimo anno, edilizia di base dal costo agevolato grazie all’intervento locale e del governo centrale.
Mi rimetto in moto per dirigermi verso Urabandai.
Cerco di addentrarmi nell’entroterra, ma pare una missione impossibile.
Al primo tentativo trovo un cartello che avverte a proposito di qualcosa ad 8km da esso…non riesco a capire cosa anche se intuisco che ci sarà qualche problema, proseguo comunque.
Puntualmente 8km dopo trovo la strada sbarrata.
Intuisco che sia una zona dove i venti siano spirati portando polvere radioattiva, non ancora bonificata, perciò l’accesso è vietato.
Provo nuovamente a prendere direzione ovest da più a sud, dopo un chilometro trovo lo stesso cartello; e ora? Se tutte le strade che provo sono così non arriverò mai a Urabandai…
Mi sento nuovamente come sul set di un film, quelli catastrofici, dove i personaggi cercano di fuggire dalla città contaminata e tutte le strade sono sbarrate.
Chiedo a due signori che si trovano nei paraggi, e finalmente riesco a capire quale sia la strada da seguire, devo andare verso Iitate, un villaggio fantasma anch’esso, non abitabile ma transitabile.
Vicino ad esso trovo un centro di stoccaggio immenso.
I sacchi neri saranno migliaia e migliaia.
Mi lascio alle spalle Minamisouma.
E tante amicizie.
Con un’idea più chiara di quello che è successo, e con la percezione di un popolo che nonostante sia già stato colpito da disastri nucleari, terremoti e maremoti, trova sempre la forza di rimettersi in piedi organizzandosi perfettamente e lavorando sodo fin da subito.
La burocrazia è aggirata in qualche modo con qualche permesso speciale, presumo, perché i lavori procedono senza sosta e senza problemi con autorizzazioni di sorta.
Giapponesi, un grande popolo.
Nel cuore del Giappone
Riprendiamo il racconto da dove ero rimasto, cercando di dettagliarlo maggiormente.
Mi trovo in un ristorante italiano adesso, e ci starò per una settimana, lavorando in cambio di vitto ed alloggio; il tempo libero non manca e ne approfitterò per regalarvi qualche parola in più sulla mia esperienza nel cuore del Giappone.
Da Morioka a Minamisouma la strada è stata lunga, tremendamente lunga, in Giappone, e specialmente nell’Honshu, fare tanti km è un’impresa, e non se ne riescono a fare mai più di 400 in una giornata, a meno di infrangere tutte le norme del codice della strada, senza contare poi che alle 6 è già buio.
Secondo il navigatore erano 350km, ma io ho allungato di proposito per osservare meglio la costa del Tohoku colpita dallo Tsunami (a riguardo ho scritto uno speciale che troverete in seguito a questo articolo), e così ne ho contati 390 al termine della giornata.
La sera, all’arrivo, Ohara san mi fa capire che la prima notte la passerò al tempio buddista di Hoshimi san: mi accompagna in macchina, meglio così, è già buio e il GPS forse non ha il waypoint nella corretta posizione.
Come arrivo trovo anche Akiko, che tramite Ogawa san aveva saputo del mio arrivo a Minamisouma e su facebook mi aveva promesso di farsi viva, e così ecco che mi saluta regalandomi un seti di “osembe”, snack giapponesi; io non ho niente da darle, e così dovrò impegnarmi a farle avere qualcosa prima di ripartire.
Gli snack in Giappone hanno taglia…minuscola!!!
2 biscottini da pochi grammi l’uno confezionati perfettamente in un involucro invitante: qua in Giappone tutto è confezionato, confezioni dentro le confezioni, dentro a pacchetti più grossi…ma poi arrivi a scartare tutti i pacchettini che in fondo non ci rimane niente…ahhhhh!!!
Andiamo all’Onsen, terme giapponesi (di nuovo!); sono in città, non credo che la sorgente sia termale, anche perché l’acqua odora un po’ di cloro.
A cena ci rechiamo presso un ristorante italiano, “Mario” come mio babbo, e ci divoriamo un set di tre primi, di cui uno “alla giapponese”, ovvero spaghetti con daikon (rafano giapponese) alga nori e tonno…beh, avrà infranto non so quante leggi della cucina italiana, ma non era poi così male!
E’ ora di dormire, la sveglia è puntata per le 6 di mattina, ora della preghiera buddista.
Al mattino ecco che mi si presenta il tempio Ganokuji in tutto il suo splendore: 1200 anni di storia, almeno all’esterno, mentre all’interno è stato ristrutturato recentemente da degli abili falegnami che hanno sede qua vicino.
L’architettura della nuova porta di ingresso ricalca quella del vecchio tempio, e rimango esterrefatto dagli incastri, tutti a secco, del legname…è qualcosa di incredibile!
La sera precedente ho avuto modo di studiare anche qualche elaborato tecnico del progetto di questa porta, impressionante.
Il tempio è situato al limitare del centro città; silenzioso, circondato dalla natura, sembra di vivere in un mondo a parte.
Prima di pranzo Hoshimi san mi porta a fare un giro nella zona colpita dallo tsunami, mostrandomi ciò che è stato delle circostanze; terribile.
L’approfondimento, nell’articolo seguente.
A pranzo, dopo qualche km a bordo della sua Prius (qua in Giappone quasi ogni famiglia ne ha una, le auto ibride sono in voga) ci fermiamo presso un ristorantino che dall’esterno sembra una casetta bianco candido.
Anche qui si devono lasciare le scarpe all’ingresso, e ci si siede al tavolo stando praticamente in terra…al centro del tavolo c’è poi una “fossa” per riporre le gambe in posizione “occidentale”.
Hoshimi san ordina un “setto” (set) comprendente
- Tempura di ebi (gambero), patata dolce, melanzana e zucca
- Soba e salsa per soba
- Sashimi (pesce crudo sfilettato) con riso e tamago (frittata)
- Tsukemono (una sorta di marinatura) di daikon
Fantastico, una scorpacciata da paura! E tutto ottimo, di qualità superba!
Una nota esilarante: i soba, ovvero quella sorta di spaghetti in secondo piano, si mangiano intingendoli nella salsa soba (nascosta dal piattino dove sosta il porro tagliato a dischetti) e poi, prendendoli con le bacchette, bisogna portarli alla bocca e…risucchiare più forte che si può!!
Nel ristorante è un’eco continua di rumori strani, che da noi sarebbero volgarissimi e maleducati, qui è invece la norma, anzi, più forte risucchi e più gradisci.
Io ci provo, ma mi sbrodolo tutto mentre tento di imitarli, con i soba che penzolano da destra a sinistra appesi alle mie labbra…mentre cerco di non ridere per come sono impacciato e per come gli altri attorno emettano suoni così potenti mentre mangiano!!
Proseguiamo il giro sulla Toyota, e visitiamo la falegnameria dove si produce la carpenteria del tempio (che tra l’altro fornisce anche il tempio Kougenji di Hokkaido).
E’ uno spettacolo, nel laboratorio si entra senza scarpe (si, anche qui!!!) ed i falegnami sono di una meticolosità palpabile a chilometri di distanza, con una precisione nelle mani da far invidia ad un calibro.
E gli strumenti sembrano intonsi, mai usati, in ordine perfetto sul carrello.
Torniamo al tempio, il tempo di vedere qualche foto insieme ad Hoshimi san che arriva Ohara san a prelevarmi per scortarmi a casa sua, dove starò 2 notti. Hoshimi san mi è piaciuto, una persona silenziosa, dal gran contegno, dai modi gentili.
Durante il mio soggiorno al tempio avevo udito qualcosa che mi riportava la mente al tempo dei Samurai in Giappone, a proposito di armature, rievocazioni, storie…il bello è che proprio una di queste armature (originali, non cose da turisti!) l’avrei indossata io!!!
Ohara san ha uno zio che si occupa della vestizione dei cavalieri (pardon, Samurai) durante la rievocazione storica “Minamisoma Somanomaoai” che si tiene a luglio, dove decine di Samurai sfilano lungo la strada principale per poi darsi appuntamento all’ippodromo per ottenere il titolo annuale.
Il pomeriggio tardi ci avviamo a casa di questo zio, e già mi attendono con tutti gli strumenti necessari a farmi sentire sulle spalle tutto il peso di un vero Samurai! (l’armatura è in effetti molto pesante!)
Il corpetto è in lamina di ferro, mi va un po’ stretto, i giapponesi hanno corpi più esili degli europei.
Dopo aver indossato tutte le protezioni necessarie (parastinchi, maglia di ferro sulle braccia, corpetto, gonnellino e casco), e dopo aver decorato il casco con quello che pare un demone giapponese, sono pronto per la sessione di foto…wow, fantastico!
Da piccolo ero appassionato del cartone animato “I 5 Samurai” ed adesso che assomiglio ad uno di loro mi sento gasato!
Il samurai (侍) era un militare del Giappone feudale, appartenente ad una delle due caste aristocratiche giapponesi, quella dei guerrieri.
Il nome deriva sicuramente da un verbo, saburau, che significa servire o tenersi a lato e letteralmente significa colui che serve.
Un termine più appropriato sarebbe bushi (武士, letteralmente: bu significa “marziale”; shi è l’unione tra il tratto basso orizzontale che indica il numero 1 e la croce il 10: l’unione di questi due segni rappresenta la conoscenza, quindi colui che discerne tutto, l’illuminato) che risale al periodo Edo.
Attualmente il termine viene usato per indicare proprio la nobiltà guerriera.
I samurai che non servivano un daimyō perché era morto o perché ne avevano perso il favore, o la fiducia, erano chiamati rōnin, letteralmente “uomo onda”, che intende libero da vincoli, ma assume sempre un significato dispregiativo.
I samurai costituivano una casta colta, che oltre alle arti marziali, direttamente connesse con la loro professione, praticava arti zen come il cha no yu o lo shodō.
Durante l’era Tokugawa persero gradualmente la loro funzione militare divenendo dei semplici Rōnin che spesso si abbandonavano a saccheggi e barbarie.
Verso la fine del periodo Edo, i samurai erano essenzialmente designati come i burocrati al servizio dello shōgun o di un daimyō, e la loro spada veniva usata soltanto per scopi cerimoniali, per sottolineare la loro appartenenza di casta.
Con il Rinnovamento Meiji (tardo XIX secolo) la classe dei samurai fu abolita in favore di un esercito nazionale in stile occidentale.
Ciò nonostante il bushidō, rigido codice d’onore dei samurai, è sopravvissuto ed è ancora, nella società giapponese odierna, un nucleo di principi morali e di comportamento simile al ruolo svolto dai principi etici religiosi nelle società occidentali attuali.
Affascinante, la frammistione di principi rigidi e tradizioni forti come quelle del bushido e del samurai, ed il mondo giapponese moderno, così diverso e “fantascientifico”.
Torniamo a casa, una gran bella casa su due piani, recente, pulita e di buon gusto.
La Madre di Yoshihiro ha preparato un’ottima cena giapponese a base di…troppe cose!!!
Sulla tavola campeggia di tutto, dal miso al riso, dal sashimi allo tsukemono, dall’oden al toufu…è un’esplosione di sapori!
Cerchiamo di scoprire la password della wifi, sembra una missione impossibile e così decidiamo di rimandare al giorno seguente; approfitto per dormire qualche ora in più appisolandomi presto.
La mattina riesco a vedere, seppur nascosta dalle nuvole, la mia prima alba giapponese: qui la luce comincia a comparire da dietro l’orizzonte già prima delle 5 del mattino!
Appena alzato, la signora Ohara mi fa trovare in tavola, già pronta, la cena.
No, un momento…la colazione…la colazione??
Sembra così simile ad una qualsiasi cena/pranzo!!!
In Giappone per colazione si mangiano le stesse cose del pranzo o della cena; ahhh, quanto mi manca la colazione con biscotti, cereali, yogurt…e la mia dose giornaliera di zuccheri!!
Comunque, tutto ottimo!
In mattinata facciamo un altro giro verso la costa, approfondendo il lato “marino”, dopo aver visionato alcuni video amatoriali a proposito dell’onda anomala generata il giorno del terremoto.
Prima di partire per la ricognizione mi chiedono se per pranzo mi andasse del sushi…gli faccio intendere che…”ma che domande sono, certo che si!!!”
E così per pranzo mi trovo di fronte a questa meraviglia…
Un delizioso assortimento di sushi di cappesante, gamberi, granchio, ikura (uova di salmone), tonno, salmone etc etc…una mangiata da ricordare!
Pomeriggio libero: il padre di Yoshihiro ci saluta (scusandosi!) per andare ad una cena con i vecchi compagni di classe, ed io mi rilasso sul divano mentre la signora Ohara non fa che continuare a portarmi succhi di frutta, frutta a fette, osembe, gelato…e va a finire che è ora di cena, oggi non ho mai interrotto l’attività masticatoria!!
Ci ritroviamo al ristorante di okonomiyaki con Akiko, suo marito, Ogawa san e Ohara san che mi ha accompagnato.
E’ ganzissimo: c’è una piastra centrale che occupa gran parte del tavolo, e dopo ordinazioni varie cominciano ad arrivare ingredienti freschi pronti per essere mescolati e posati sulla piastra.
Questo ad esempio è un okonomiyaki, con pastella, cavolo e carne se non ricordo male, ed una volta pronto si guarnisce con salsa per okonomiyaki (molto simile alla salsa per tonkatsu), nori in polvere e katsuoboshi in polvere (praticamente pesce secco).
Wow, che mangiata!
Tutti hanno bevuto un po’ troppo, così il marito di Akiko torna a casa in bici e Ohara san chiama un tassista per farsi guidare la macchina fino a casa…accidenti, gente seria i giapponesi, complimenti!
La mattina seguente Ogawa san arriva per portarmi al suo covo, mi sento più nomade adesso di quando ero in Mongolia, eh eh!
Saluto la famiglia Ohara, gentilissima e super premurosa, li ricorderò sempre con affetto e spero di poter tornare a salutarli.
Con Ogawa san facciamo un giro in auto con direzione museo di storia di Minamisouma, dove vengono esaltate le emergenze naturali e storiche della città, in special modo la tradizione samurai e la rievocazione di luglio.
Ma la parte che più mi attrae è il parchetto tutto attorno.
E’ ora di pranzo.
Non si fa che parlare di cibo, vero?
Beh, qua è tutto “nuovo” per me, anche se già conoscevo gran parte della cucina giapponese più famosa.
Oggi tocca al tonkatsu…mmm, è delizioso, fuori la croccantezza del panko e dentro la delicatezza della cotoletta di maiale.
Contorno di riso, miso, tsukemono di daikon e cavolo.
Tutto per 730Yen, praticamente neanche 6€, e sono pieno!
Per quanto riguarda il cibo, il Giappone è molto meno costoso dell’Italia, devo ammetterlo.
Fine della giornata in auto, girovagando tra colline e mare, sempre alla ricerca del dettaglio che sbroglia la matassa di dubbi attorno al disastro dello Tsunami e del collasso della centrale Fukushima Dai-ichi.
Ma per parlare di questo ci sarà tempo nello speciale seguente.
Stasera tocca a me: mi è stato affidato il compito di preparare qualcosa di italiano, ok!
Qualcuno butta là l’ipotesi del risotto e così spolvero una ricetta che spesso viene proposta a casa mia dalla mamma – risotto alla zucca!
La preparazione non è semplice perché mancano alcuni ingredienti, quali parmigiano e riso per risotto (in Giappone ne esiste solo un tipo, sembra, a grano corto, e non è il top per il risotto); comunque no problem, con qualche adattamento riesco a tirar fuori un buon risotto all’occhio ed al palato!
Ogni volta che mangio italiano sento che i sapori sono cambiati dall’ultima volta, mesi fa in Italia, ed i piatti sono molto più gustosi, un delirio per le papille gustative!
Mr Ogawa e Mr Ohara apprezzano ed io vado fiero di questa italianità.
Purtroppo ogni storia ha un termine e la mia qui a Minamisouma è giunta a tal punto.
Le amicizie accumulate qui sono state tante, e tutti mi hanno accolto in casa loro come li conoscessi da molto, come vecchi amici, sono sbalordito, perché mi aspettavo il contrario dai giapponesi, riservati, timidi e un po’ timorosi degli estranei.
Akiko e Ohara san mi svelano che il mio carattere, il mio sorriso e la mia positività piacciono ai giapponesi, perciò nessuno ha mai difficoltà a darmi una mano, e mi confidano che questa sarà una caratteristica fondamentale quando sarò a Tokyo in cerca di impiego: sono contento per queste parole, mi mettono molto di buonumore.
Grazie amici!
I km che mi separano da Mrs Shimura sono pochi, sui 160 circa, ne approfitto per fare una breve deviazione al Goshiki Numa Lake, uno scorcio in mezzo alla verdura del bosco dove si estende un laghetto carinissimo; peccato per la giornata non proprio bellissima!
Sono curioso di vedere come sarà questo ristorante.
Quale ristorante??
Già, ancora non l’ho spiegato: starò una settimana da Shimura san, che gestisce un ristorante tutto da sola, e per giunta il ristorante è italiano!
In cambio di vitto ed alloggio lavorerò per lei come contadino, inserviente, cameriere, cuoco, lavapiatti…insomma mi darò da fare per rendere a Shimura san questi giorni un po’ meno pesanti e meno solitari (lavora qui da sola, e riesce a fare tutto questo a 76 anni, ha un’energia che a volte neanche io…!), per godermi la pace del lago Hibara e per apprendere qualcosa di più dalla frammistione di tradizione italiana ed atmosfera giapponese.